Toni Collette e Gabriel Byrne saranno dal 25 luglio al cinema in Hereditary – Le Radici del Male, il primo lungometraggio scritto e diretto da Ari Aster che trasforma una tragedia famigliare in qualcosa di funesto e di profondamente inquietante, spingendo il genere horror su un nuovo terreno ancora più agghiacciante.
Quando l’anziana Ellen muore, i suoi familiari cominciano lentamente a scoprire una serie di segreti oscuri e terrificanti sulla loro famiglia che li obbligherà ad affrontare il tragico destino che sembrano aver ereditato. È questa la trama di Hereditary, un film che ripropone i temi cari ad Ari Aster, legati ai rituali e ai traumi familiari. Grazie alla scrupolosa maestria e all’abilità visiva di Aster, questo sconvolgente film trasforma un dramma domestico in un horror operistico, rievocando alcuni classici degli anni ‘60 e ‘70.
Aiutato dal direttore della fotografia Pawel Pogorzelski, suo compagno di classe ai tempi dell’American Film Institute Conservatory, Aster ha saputo dimostrare il suo talento già a pochi istanti dall’inizio del film con una carrellata fluida ed elegante che fonde i due diversi mondi della storia: quello popolato dalle miniature (create da Steve Newburn), e quello abitato dagli esseri umani, che interagiscono su un set, creato appositamente negli studi cinematografici dello Utah. Questo espediente dà vita all’inquietante visione di una famiglia vittima di una terrificante maledizione: i Graham sono come delle statuette in una casa delle bambole manipolata da forze maligne.
Aster ha iniziato a immaginare Hereditary dopo che la sua famiglia aveva attraversato una serie di difficoltà durate ininterrottamente per un periodo di tre anni: “la situazione era diventata davvero insostenibile, al punto che iniziammo a pensare di essere vittime di una maledizione. Quando si gira un film sulle ingiustizie della vita il genere horror è un terreno di gioco molto particolare. È una sorta di spazio perverso in cui le ingiustizie della vita vengono celebrate se non addirittura glorificate”.
Prendendo spunto da fonti cinematografiche impensabili come Gente Comune, Tempesta di Ghiaccio e In the Bedroom (drammi feroci in cui generazioni di famiglie si confrontano con la morte, le malattie mentali e la violenza psicologica) Aster ha ribaltato questa tragedia domestica, spingendo Hereditary nel reame dell’horror sovrannaturale. Il regista riesce a fondere la sostanza di questi drammi emotivi con l’ispirazione creativa di alcuni horror di culto degli anni ‘60 e ‘70, come Rosemary’s Baby, A Venezia… un Dicembre Rosso Shocking e Suspense (The Innocents). “Tutti film sofisticati, caratterizzati da ruoli forti, che ai loro tempi hanno letteralmente sbancato ai botteghini”, spiega Aster.
Lo stesso Etolo del film assumerà un significato sempre più sconvolgente con il progredire della storia, trasferendo il tema dell’ereditarietà nel reame dell’horror sovrannaturale, e anche oltre. “Questo è un film sulla nostra discendenza e sull’impossibilità di scegliere la nostra famiglia o quello che c’è nel nostro sangue – continua Aster – racconta l’orrore dell’essere nati in un contesto sul quale non si ha il controllo. Non c’è niente di più inquietante, secondo me, dell’idea di non avere alcun potere”.
Attraverso la sua rigorosa analisi del libero arbitrio e del concetto che tutto sia preordinato e inevitabile, Hereditary esprime una concezione fatalistica della discendenza famigliare. “Il fatto che i Graham non abbiano alcun potere sul loro fato rappresenta un punto cruciale del film. La sensazione che si prova alla fine è di disperazione e d’inutilità – osserva il regista – volevo fare un grande film horror intimista che incollasse gli spettatori alle loro poltrone. Spero che questo film resti per molto tempo nelle menti di coloro che lo vedranno, e che li spinga a misurarsi con qualcosa di profondo e di primordiale, lasciando loro la sensazione che ci sono delle situazioni dalle quali è impossibile sfuggire”.
In Hereditary Aster esamina le dinamiche di potere familiare in modo originale e imprevedibile: “mi hanno sempre interessato le dinamiche di potere – continua Aster – e non sono mai più logoranti e insidiose di quelle che si generano tra i membri di una famiglia”. Apparentemente, i Graham sono una famiglia americana come tante. Nei primi minuti del film li vediamo affrontare un lutto: la morte di Ellen Leigh, madre di Annie e misteriosa figura matriarcale; una figura la cui eredità, con l’evolversi della storia, diventa sempre più sinistra. I Graham affrontano questo lutto ciascuno a modo suo. Quando Annie partecipa a un gruppo di supporto per coloro che hanno subito un lutto, scopriamo di più sulla vita di sua madre, sul suo retaggio e sul senso di alienazione che prova Annie all’interno della sua famiglia.
“Annie ha diverse problematiche irrisolte con la madre e non riesce a lasciarsele alle spalle – racconta Aster – ha degli indizi sulle intenzioni che Ellen aveva quando era viva, ma non riesce a metterli assieme. Probabilmente, c’è una parte di lei che preferisce non sapere quali fossero le vere intenzioni della madre. È qualcosa che lei sa dentro di sé, ma non riesce ad accettarlo. Perché se guardasse in faccia la verità rischierebbe di rimanere distrutta”. Annie è un’artista che si prepara a mettere in mostra le sue opere in una galleria; elabora la sua rabbia attraverso l’arte e la creazione di una casa di bambole in miniatura, che raffigurano le difficoltà e le sofferenze realmente vissute dalla famiglia Graham: come i giorni che Ellen ha trascorso in un ospedale per malati terminali, prima della sua morte.
“Annie crea delle miniature di posti e di situazioni che ha realmente vissuto; delle piccole repliche perfette che le danno la sensazione di avere il controllo della sua vita, delle sue esperienze e dei suoi ricordi”, racconta Aster. “Ma la sua è solo un’illusione”. Il marito di Annie (Gabriel Byrne) è una presenza positiva ma sfuggente, essendo uno psichiatra che trascorre molte ore con i suoi pazienti. Peter (Alex Wolff), il loro figlio adolescente, è un liceale allo sbando che a scuola annaspa, si perde tra una discussione e l’altra sui classici greci e fuma spinelli insieme ai suoi compagni.
Charlie, la figlia più piccola, frequenta dei corsi di recupero e non aspetta altro che rintanarsi nella sua casetta sull’albero a rimuginare e a costruire silenziosamente dei totem inquietanti fatti di resti animali e di ninnoli familiari. “Peter non ha una direzione precisa da seguire, non ha alcun interesse serio e non ha un’identità solida, ma paradossalmente, alla fine del film, sarà proprio lui a trovare uno scopo nella vita”, dice Aster. Charlie non sarà altrettanto fortunata. Lei è facilmente vulnerabile, estremamente silenziosa ed è paralizzata dalle sue fobie. E c’è qualcosa di molto inquietante in lei. Man mano che la storia progredisce, i Graham iniziano a capire di essere delle pedine in mano a forze ignote.
Dopo averci fatto conoscere i Graham, Hereditary cambia direzione per entrare nel reame di una storia di fantasmi, con Annie che fa amicizia con Joan (Ann Dowd), una casalinga della provincia in lutto per la morte di un suo parente venuto a mancare di recente. Joan convince Annie a partecipare con lei a una seduta spiritica, introducendo così la dimensione paranormale che caratterizza la seconda parte della storia. “Volevo fare una mia versione della scena in cui Janet Leigh entra nella doccia” – conclude Aster – riferendosi a Psycho, mentre descrive la sua narrazione in costante movimento. Nella sua tesa, terrificante seconda parte, Hereditary si spinge verso luoghi dove pochi spettatori si aspetteranno di essere trasportati.
“Questa è una storia che parla di persone che sono incapaci di agire”
Ari Aster