Jean-Jacques Annaud torna al cinema con L’Ultimo Lupo. Un film che, dopo aver sbancato i botteghini di Francia e Cina, sarà nelle nostre sale da giovedì 26 marzo, anche in 3D. La pellicola, presentata in anteprima al Bari International Film Festival, è tratta dal romanzo Il Totem del Lupo di Jiang Rong (edito da Mondadori) e vede protagonisti Shaofeng Feng e un magnifico animale, il lupo.
Chen Zhen (Shaofeng Feng), un giovane studente di Pechino, viene inviato nelle zone interne della Mongolia per insegnare a una tribù nomade di pastori. A contatto con una realtà diversa dalla sua, Chen scopre di esser lui quello che ha molto da imparare sulla comunità, sulla libertà ma specialmente sul lupo, la creatura più riverita della steppa.
Sedotto dal legame che i pastori hanno con il lupo e affascinato dall’astuzia e dalla forza dell’animale, Chen un giorno trova un cucciolo e decide di addomesticarlo. Il forte rapporto che si crea tra i due sarà minacciato dalla decisione di un ufficiale del governo di eliminare, a qualunque costo, tutti i lupi della regione.
Vi presentiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata ufficialmente dal regista Jean-Jacque Annaud, grande nome del cinema mondiale già autore de Il Nome della Rosa e di Sette Anni in Tibet.
Com’è cominciata quest’avventura che risale a circa 7 anni fa?
Tutto è cominciato quando una delegazione di cinesi è venuta a incontrarmi a Parigi. Prima di tutto bisogna sottolineare che Il Totem del Lupo è stato un fenomeno letterario sconvolgente in Cina. Uscito nel 2004, il romanzo è scampato alla censura. Mascherato sotto uno pseudonimo, l’autore, era di fatto sconosciuto. Il suo libro autobiografico si svolgeva nella lontanissima Mongolia Interna, nel 1967, all’inizio della rivoluzione culturale. Le autorità non ci hanno fatto praticamente caso, se non fosse che la storia ha riportato alla luce molte cose. Il percorso d’iniziazione di un giovane alla scoperta della campagna remota e la sua conversione alla vita da nomade in un luogo così selvaggio, avevano, decenni dopo, una risonanza particolare in un paese, come la Cina, alle prese con dei terribili problemi ambientali e con l’inquinamento.
L’uscita del romanzo è stata come una presa di coscienza del pericolo ambientale…
L’impatto sulla società è stato colossale. Il Totem del Lupo è diventato il successo letterario più importate dopo il Libretto Rosso di Mao. I lettori hanno scoperto l’esistenza dei questi luoghi magnifici e puri della Mongolia Interna, che oggi è fortemente minacciata.
Ma torniamo alla domanda iniziale: com’è arrivato questo progetto nelle sue mani?
Avevo sentito parlare del libro quando uscì tradotto in francese e ne avevo letto qualche pagina, è stato lo stesso modo in cui mi ero avvicinato a Il Nome della Rosa quando, anni prima, lessi degli estratti del romanzo. Mi resi conto, allora, che i temi sviluppati ne Il Totem del Lupo mi erano familiari. Il giovane studente Chen Zhen catapultato in piena campagna nel 1967 mi ha ricordato il giovane uomo che ero stato io in quello stesso anno, quando partii alla scoperta del Camerun e mi approcciavo a girare il mio primo film, Bianco e Nero a Colori. L’idea di questo “giovane istruito” che s’innamorava di un luogo così improbabile, allevando un cucciolo di lupo in mezzo a un branco di pecore, non era altro che il ricordo di alcune tematiche ben radicate nella mia vita e nel mio lavoro. È stato allora che, le persone che poi sono diventate i miei produttori e i miei collaboratori, arrivarono nel mio ufficio, a Rue Lincoln a Parigi. Mi proposero di adattare il romanzo per il grande schermo. Gli ricordai che io non ero proprio ‘benvoluto’ dalle autorità cinesi, ma loro dissero “La Cina è cambiata. E poi siamo persone pragmatiche: abbiamo bisogno di lei”. Accettai la loro offerta di andare a Pechino. Arrivato in Cina mi resi conto che i miei film erano molto diffusi in tutto il paese, che avevano trovato posto tra le poche produzioni straniere che non erano censurate. Per assurdo, però, il mio film più visto in assoluto L’Amante è, ad oggi, ancora vietato.
Questo film è prodotto in parte anche dalla Cina. Che cosa pensa della concorrenza con i film cinesi?
Nel mondo cinematografico odierno credo che la Cina sia per la Francia più un possibile alleato che un concorrente. La concorrenza, in Cina, è americana e non è neanche di buona qualità. I film hollywoodiani che hanno accesso a quello che diventerà a breve il più grande mercato cinematografico del mondo, sono i classici blockbuster, i più prevedibili e i più spettacolari. I professionisti cinesi sono alla continua ricerca di scambio, sono sempre di più gli incontri con i produttori degli altri paesi.
Com’è visto in Cina L’Ultimo Lupo? Come un film cinese fatto da un francese o come un film francese realizzato anche con soldi cinesi?
In Canada La Guerra del Fuoco è un film canadese, in Germania Il Nome della Rosa è un film tedesco. Visto dall’Africa Bianco e Nero a Colori, che ha vinto l’Oscar per la Costa d’Avorio, è un film africano. L’Ultimo Lupo è un film cinese, ma è anche il mio film.
Parliamo degli aspetti tecnici del film. Alcune sequenze hanno una grandezza dantesca in termini di comparse, animali, azioni e scenografia. Il budget si aggira intorno ai 40 milioni di dollari, una grossa somma tradotta in moneta cinese. Non le è stato negato niente?
Ho avuto la fortuna di beneficiare della volontà dell’industria cinematografica cinese di migliorarsi e di elevarsi di livello. Produttori, registi, attori, tecnici tutti hanno uno sguardo molto critico nei confronti del loro lavoro. Su 400 film prodotti all’anno, tra questi ci sono dei veri gioielli. L’industria cinematografica cinese di oggi mi fa pensare all’Italia degli anni ’60, la grande epoca del Peplum all’italiana e degli spaghetti western, dove il sistema cinematografico doveva fare i conti con le produzioni di scarsa qualità, circondati da cinema alto diretto da grandi registi.
Qual è stato il suo sguardo sui lupi-attori?
I grandi attori spesso sono incontrollabili, deconcentrati, affascinanti ed emotivi. A volte invece sono adorabili, come il nostro capo branco, il re Cloudy, a cui ho affidato il ruolo principale. Aveva deciso che ero suo amico, potevo accarezzarlo e ogni mattina mi saltava addosso leccandomi il viso. Un privilegio raro, che mi ha fatto buttare numerose giacche a vento e procurato non pochi graffi. La regina Silver, la sua compagna, metteva fine alle nostre effusioni tirandomi i pantaloni e tirandomi i capelli. Mia moglie, mia collaboratrice e scrittrice Laurence, ha capito molto dopo che Cloudy non si chiamava “Claudia”.
Bè è incredibile…
Sì, lo è perché di fatto ero l’unico, oltre all’addestratore, che poteva avvicinare questo lupo. Incredibile anche perché, a detta dello stesso Andrew, era una cosa inaspettata e inspiegabile. Dal momento in cui siamo stati presentati, quando ha iniziato a prendere il potere all’interno del giovane branco, è venuto verso di me saltellando con la coda tra le gambe e lo sguardo dolce… Mi ha annusato e si è messo a pancia in su disteso, Andrew mi ha consigliato di accarezzarlo. Cloudy mi ha leccato velocemente un dito e poi è ripartito verso il branco. Si è avvicinato ad ogni singolo lupo per fargli sentire il mio odore. Giorno dopo giorno ha continuato a fare lo stesso ma non più con un atteggiamento da “vassallo”, e sempre più come un amico. Non ha più permesso che si iniziasse a lavorare senza la sua dose di coccole mattutina.
Una parola anche per un altro aspetto importante dei suoi film: la terra, i paesaggi che ancora una volta sono quasi primordiali.
La verginità degli spazi è uno degli elementi fondamentali del film. Lo splendore della steppa è lo scrigno del lupo della Mongolia, il simbolo eroico e selvaggio della vita selvaggia. Massacrando la vita degli altri ci stiamo avvicinando a un epilogo tragico. Io mi affliggo da anni guardando questo lento suicidio che la nostra specie sta perpetuando. Jiang Rong, l’autore del romanzo, è stato testimone dell’ignoranza devastatrice che ha distrutto l’ambiente negli anni ’60, degli errori fatti in Cina su larga scala come purtroppo dappertutto. Io all’epoca ero in Camerun. Il bene fatto è stato quello di rimpiazzare le foreste con piantagioni di cacao o di ananas, di trasformare i grandi spazi in territori per l’allevamento, inondare intere regioni per irrigare questi territori destinati all’agricoltura…
Lei ha fatto un film dietro l’altro, non ha mai voglia di prendersi veramente una pausa?
Laurence, mia moglie, che mi accompagna sui set e nella vita dai tempi de Il Sostituto, sorride quando le chiedono delle nostre vacanze. Racconta sempre come, mentre ci facevamo trasportare dal fiume Niger, io fossi intento a scrivere la sceneggiatura de Il nome della rosa, totalmente non curante del fatto che la nostra imbarcazione era stata attaccata da un branco di ippopotami. O di come, mentre facevamo trekking in Gibbuti, scribacchiavo su un taccuino tutta l’attrezzatura tecnica che mi sarebbe servita per Il nemico alle porte. Le parole vacanza, hobby, sport e distrazione mi annoiano. Pratico un solo sport, uno sport estremo, il cinema. Ho amato ogni giorno l’incredibile privilegio di essere un regista… una fortuna che il mio mestiere mi permette di condividere con gli altri.
Lei che ama tanto le immagini quanto le parole, se le chiedessi di sceglierne una che riassume il suo percorso come uomo e come cineasta, quale sceglierebbe?
La parola Cuore. Non bisogna mai ingannare se stessi, bisogna vivere secondo i propri desideri, seguendo le pulsioni del cuore. Bisogna impegnarsi con tutti noi stessi per far sì che questa utopia sia possibile. Bisogna battersi per fare quello che ci piace. La mia gioia è quella di portare la mia squadra allo spettacolo della creazione di un sogno e vederlo con i propri occhi. Se riesco a emozionarli allora significa che ho vinto, e il mio cuore palpita.