Dopo l’esordio con Diana Vreeland – L’Imperatrice Della Moda, la regista Lisa Immordino Vreeland dedica il suo nuovo film – oggi in sala – a un’altra grande protagonista del Novecento: Peggy Guggenheim (1898-1979), una figura sempre in anticipo sui tempi, capace di segnare un’intera epoca diventando una figura centrale dell’arte moderna. Il documentario, Peggy Guggenheim: Art Addict, racconta questa grande artista come mai era stato fatto prima, grazie all’accesso a inediti materiali d’archivio, e in particolare alle registrazioni di una lunga intervista rilasciata dalla stessa Guggenheim poco prima della sua morte e finora considerata perduta.
Sullo sfondo dei più importanti, e spesso drammatici, avvenimenti del XX secolo (dal naufragio del Titanic, in cui perse la vita il padre, alla Seconda guerra mondiale), Peggy Guggenheim ha intrecciato la sua esistenza con quella di artisti e intellettuali come Samuel Beckett, Max Ernst, Jackson Pollock, Alexander Calder, Marcel Duchamp.
Vi proponiamo ora di seguito l’intervista integrale rilasciata da Lisa Immordino Vreeland.
Qual è il tuo rapporto con Peggy Guggenheim?
È stata una vera protagonista della Storia dell’Arte, quindi mi sono sempre stata interessata a Peggy. A scuola avevo letto la sua autobiografia, Out of This Century, e avevo trovato in lei una donna molto coraggiosa, che aveva deciso di voler realizzare qualcosa di importante nella propria vita all’età di 40 anni. Da giovane non era felice, a causa delle restrizioni di una vita familiare da cui voleva scappare, e mi interessava molto il suo desiderio di trasformazione. La sua è stata una vita piena di tristezza, ma Peggy ha saputo trovare la sua piena realizzazione nella cerchia degli artisti d’avanguardia, scoprendo il vero scopo della sua vita.
Il film è costruito intorno ad alcune interviste realizzate negli ultimi anni della vita di Peggy Guggenheim. Come hai fatto ad acquisire le registrazioni?
Abbiamo opzionato il libro di Jacqueline Bogard Weld, Peggy: The Wayward Guggenheim, l’unica biografia autorizzata di Peggy, pubblicata dopo la sua morte. Jackie aveva passato due estati ad intervistare Peggy, ma aveva perso da qualche parte le registrazioni nel suo appartamento di Park Avenue. Jackie, che aveva intervistato più di 200 persone per il suo libro, è stata molto generosa, dandomi pieno accesso alla sua ricerca originale, a parte i nastri perduti. Avrei voluto cercarli in ogni stanza del suo appartamento, e chiederle “Dove pensi possano essere finiti questi nastri?”. Così un giorno le ho chiesto se avesse una cantina… sì, l’aveva, e sono stata sommersa tra gli scatoloni a cercare tra le sue cose, finché un giorno, “bingo!”, le registrazioni sono saltate fuori da una scatola di scarpe. Era l’intervista più lunga che Peggy avesse mai rilasciato, ed è diventata la struttura del nostro film. Non c’è niente di più forte che sentire la voce di qualcuno che ti racconta una storia, e Jackie era bravissima a fare domande provocatorie. Come potrete immaginare, era stato difficile per Peggy rispondere a molte di queste, perché non era particolarmente espansiva e non mostrava molto le sue emozioni. E questo traspare dal film, dal tono della sua voce.
Se non avessi mai trovato le registrazioni, come sarebbe stato il tuo documentario?
Sono state scritte così tante cose su Peggy, esistevano centinaia di articoli scritti su di lei. Aveva persino tenuto un bellissimo album di articoli che la riguardavano, che adesso fanno parte degli archivi del Guggenheim Museum. Aveva scritto anche un’autobiografia e ci sono numerose biografie su di lei. Dunque il film sarebbe nato dall’insieme di tutte queste fonti diverse.
Quali sono le qualità di Peggy Guggenheim che ti hanno fatto capire che fosse il soggetto adatto per un documentario?
Il suo coraggio, prima di tutto. A Parigi ha continuato a collezionare pezzi d’arte anche durante la guerra. Inoltre io amo le storie di persone che cercano di reinventare se stesse, per cercare uno scopo più profondo per le loro vite. Peggy era cresciuta in un’antica e tradizionale famiglia di ebrei bavaresi che si era trasferita a New York nel XIX secolo, vivendo per anni come i Rockefeller. Fin da giovane Peggy sentiva che c’erano troppe regole intorno a lei, voleva romperle. Mi interessava molto l’idea che sapesse che non si sarebbe mai adattata alla sua famiglia e alla sua epoca. Inoltre ha vissuto in un periodo storico che è tra i miei preferiti: negli anni 20 era a Parigi, il posto più eccitante dove trovarsi, tra i Dadaisti e i Surrealisti. Lo storico dell’arte John Richardson, che è uno dei protagonisti del film, usa la parola “impollinatore” per descrivere Peggy, ed è precisamente ciò che era: aiutava tutti gli artisti che incontrava.
Il Guardian descrive il tuo film precedente, Diana Vreeland: L’Imperatrice Della Moda, come ”uno sguardo affascinante sulla vita di una donna anticonvenzionale e una breve cavalcata attraverso la storia del XX secolo”. In effetti la Vreeland e la Guggenheim sono nate e morte a dieci anni l’una dall’altra. Hai fatto un confronto immediato tra queste due donne?
Le loro personalità erano molto diverse. Erano entrambe ribelli e mi piace l’idea dell’essere ribelle. Provenivano entrambe da famiglie tradizionali, e hanno deciso di dettare loro le proprie regole. La signora Vreeland era una persona felice, mentre Peggy era più riflessiva. Penso che la Vreeland fosse totalmente visionaria, è per questo che oggi è così influente, specialmente nel mondo della moda. Anche Peggy era visionaria, ma emotivamente meno vivace.
“Era una femminista senza averlo realizzato”, è così che hai descritto Diana Vreeland nella stessa intervista del Guardian. Diresti lo stesso di Peggy Guggenheim?
Decisamente, anche se Peggy non si sarebbe mai definita una femminista. Entrambe, lei e la Vreeland, sono cresciute in un modo molto tradizionale. Nel caso di Peggy, una volta deciso di aver bisogno di uno scopo nella vita, aveva creato una sorta di traiettoria per se stessa, e in effetti stava facendo esattamente ciò che voleva fare. Ma non credo abbia mai seguito l’idea di essere femminista: era più forte il desiderio di aiutare gli artisti a trovare un vero scopo nelle proprie vite. Ha sempre avuto in mente l’idea di creare una collezione che la gente potesse vedere, era il suo modo di donare qualcosa al prossimo. E quando finalmente, a Venezia, aveva creato una casa per sé e per la collezione, in qualche modo era stata una vittoria.
Questo è il tuo secondo film. Può parlarci del processo di realizzazione e di come è diverso da quello precedente?
La cosa più stimolante di questo film era la grande quantità di materiale a nostra disposizione. Sono stata viziata dalla possibilità di avere accesso a questo incredibile archivio di notizie e di foto: sono ancora nuova nel mondo del cinema, ma questo è l’aspetto del fare un film che ho amato di più in entrambi i progetti. Rispetto alla Vreeland, Peggy aveva una storia personale tragica: dovevamo raccontare la sua infanzia, la morte del padre sul Titanic, la scomparsa della sorella, tutti eventi drammatici che la segnarono profondamente.
Le tue fonti nel film sono un gruppo eclettico proveniente da ogni parte del mondo, che abbraccia diversi campi, epoche e discipline. Da dove sei partita per costruire la tua lista di fonti?
È stato un vero e proprio lavoro di squadra: c’erano sicuramente delle personalità che non potevano mancare, come Philip Rylands, direttore della Collezione Peggy Guggenheim a Venezia, e poi sicuramente Jackie Weld. Sono loro che ci hanno aiutato a “convalidare” la storia. Ci siamo affidati ai suoi amici per raccontare gli aspetti della sua storia personale, e poi agli storici dell’arte, ai suoi galleristi e ai direttori dei musei, per parlarci della sua eredità. John Richardson, il più importante biografo di Picasso, gioca un ruolo decisivo nel film: ci racconta moltissimo della vita di Peggy. Alla fine volevamo confrontarci con il mondo dell’arte contemporaneo, con figure come Marina Abramovic e Larry Gagosian, perché è importante per le persone di oggi trovare un punto di contatto con Peggy. Così tante persone sono state influenzate e ispirate dalla collezione di Peggy Guggenheim. È stato fantastico ascoltare ciò che avevano da dire.
Peggy aveva il dono di essere nel posto giusto al momento giusto, dal punto di vista culturale, e la sua collezione d’arte ha beneficiato del suo abile radar. Cosa credi l’abbia resa così lungimirante e ben sintonizzata?
Mi domando se fosse preveggente, in sintonia o semplicemente al posto giusto al momento giusto. Nel 1938, quando Peggy aprì la Guggenheim Jeune a Londra, fu la prima a esporre certi artisti in un certo modo. Esistevano sicuramente altre gallerie, ma non erano concepite allo stesso modo: fu così brillante da chiedere a Marcel Duchamp di farle da consulente. Era all’avanguardia su ciò che stava accadendo, e penso fosse dovuto anche all’attitudine di Peggy a essere aperta verso tutto ciò che fosse nuovo.
Il tuo documentario è piacevolmente schietto nel raffigurare l’irriducibile sessualità di Peggy, è descritta dalle fonti come una ninfomane, una persona per cui sesso e arte vanno di pari passo…
Quando uscì la sua autobiografia fu uno scandalo, e non aveva mai usato nomi reali, usava pseudonimi per sé e per i suoi numerosi partner. Solo dopo la pubblicazione rivelò i nomi degli uomini con cui era andata a letto. Il fatto che parlasse a tutti della sua vita sessuale era l’aspetto più oltraggioso. Si era esposta al ridicolo, ma non le importava. Peggy era se stessa, e si sentiva bene nella propria pelle. Ma era decisamente un comportamento anticonvenzionale. Credo che i suoi appetiti sessuali rivelassero molto della sua ricerca di identità. Penso che gran parte di questo fosse legato alla perdita del padre, in aggiunta al suo desiderio di sentirsi accettata. Era anche molto avventurosa, guardate gli uomini con cui è stata. Samuel Beckett, Yves Tanguy, Marcel Duchamp, e sposò Max Ernst. Credo fosse davvero audace da parte sua essere così aperta riguardo alla sua sessualità. Era qualcosa che le persone non facevano, allora.
Il titolo Art Addict sottolinea il vorace appetito di Peggy: cosa credi che l’abbia spinta o abbia guidato il suo gusto eclettico e internazionale per l’arte e la cultura?
Le famiglie come quella di Peggy avevano questo innato senso di “internazionalità” perché avevano viaggiato molto, lei aveva già girato il mondo quando era molto giovane. Non si era mai sentita legata a New York, si sentiva molto più a casa in Europa, dove si sentiva libera. Quando aveva “appetito” e guidava per andare a Parigi, si preparava come se dovesse comporre una lista di artisti con l’aiuto di Herbert Read. E più tardi incontrò e coltivò molti di questi artisti. Aveva il proprio gusto che poi sviluppò, e questa era un’altra cosa molto moderna di lei. Aveva viaggiato ed era tornata da così tanti paesi, e aveva case in molti posti diversi, e non è qualcosa che molte donne facevano da sole in quel periodo. Certo, i soldi le diedero la libertà di fare tutto questo, dobbiamo ricordare che ereditò 450mila dollari dopo la morte del padre, e anche oggi sarebbero una somma enorme. Ma la sua è anche una storia di solitudine: andare in Europa negli anni ’20 fu il tentativo di scappare dalle tragedie della sua vita.
Uno dei suoi traguardi più importanti fu la galleria Art of This Century, a New York, che non somigliava a nessun’altra… Era diventata un genio nel mostrare le sue collezioni.
Per Art of This Century ingaggiò Frederick Kiesler come designer della galleria, e ancora una volta circondò se stessa di persone giuste, tra cui Howard Putzler, con cui aveva già collaborato alla Guggenheim Jeune di Londra. Cominciò a mostrare l’arte in un modo completamente diverso, informale e accessibile. Nei musei tradizionali e nelle gallerie, l’arte era intoccabile, sul muro e all’interno di cornici. Nella galleria di Peggy, l’arte saltava fuori dai muri; le opere non erano confinate nelle cornici. Kiesler progettò delle sedie speciali dove potevi sederti e sfogliare le tele come se stessi leggendo in una libreria. Nulla del genere era mai esistito prima, e anche oggi non esiste niente di simile.
Nel film Larry Gagosian ha dato una delle migliori definizioni di Peggy: “lei era la sua creazione”. Sei d’accordo, e se sì perché?
Era decisamente una sua creazione. Nel caso di Peggy, questo derivava da un reale bisogno di capire se stessa. Non sono sicura che ci sia riuscita, ma si era completamente reinventata, sapeva di non voler diventare ciò che era stata educata ad essere. Aveva provato ad essere madre, ma questo non era uno dei suoi punti di forza, così l’arte era diventato il luogo dove poter trovare se stessa e che la trasformò. Nessuno credeva negli artisti che lei aveva coltivato e supportato, erano degli outsider, e lei era un’outsider nel mondo in cui era cresciuta. Dunque, è in questo modo che lei era diventata la sua grande invenzione. Spero che il suo senso dell’umorismo venga fuori dal film, perché era estremamente divertente: un aspetto che traspare molto dalla sua autobiografia.
Infine, quale credi che sia la più grande eredità di Peggy Guggenheim al di là della sua collezione?
Il suo coraggio e il modo in cui lo ha usato per trovare se stessa.