Dall’8 al 20 novembre al Teatro Quirino di Roma debutta Berretto a Sonagli, lo spettacolo di Luigi Pirandello qui diretto e interpretato da Gabriele Lavia, sul palco affiancato da Federica Di Martino. In questo testo amarissimo, comico e crudele, specchio di una società “malata di menzogna”, Gabriele Lavia interpreta l’umile scrivano Ciampa, che ricorre alla follia per mantenere la facciata di rispettabilità del suo infelice matrimonio. È il primo dei grandi personaggi pirandelliani a prendersi un’amara rivincita sulle umiliazioni di un’intera vita.
Gabriele Lavia racconta…
“Per Luigi Pirandello la vita è una “soglia” troppo affollata del “nulla”… E tutta la sua opera ruota attorno a questo “nulla” affollato di “apparenze”, di ombre che si agitano nel dolore e nella pazzia. Solo “i personaggi” sono “veri” e “vivi”. Il Berretto a Sonagli è una tragedia della mente. Ma porta in faccia la maschera della “farsa”. Pirandello mette sulla scena un “uomo vecchio” uno di quegli uomini “invisibili”, senza importanza, schiacciato nella “morsa” della vita e, poiché́ è un “niente di uomo” è trattato come se fosse niente: “Oh che ero niente io?”. Questa “domanda disperata” nasconde la concezione di se stesso, torturata e orgogliosa, di un uomo dissolto nel “nulla” del mondo, un nulla affollato da fantocci, da pupi. Da fantasmi umani. Che spiano e che parlano. Parlano parole già̀ “parlate”, consumate. E sul nostro palcoscenico, “come trovati per caso”: un vecchio fondale “come fosse abbandonato” e pochi elementi, “come relitti” di un salottino borghese, e “per bene”, dove viene rappresentato un banale “pezzetto” di vita di una “famiglia perbene” o di una “famigliaccia per bene” che fa i conti con l’assillante angoscia di dover essere “per gli altri”, di fronte agli altri. Come se la propria vita fosse, per statuto, una recita per “gli altri” che sono gli spettatori ingiusti e feroci, della propria vita. Del proprio “teatro”.
Vita di uomini che non sono altro che un segno che indica il nulla, fatto di apparenze, di fantasmi, di tutto quello che l’“io” è per gli altri. È l’“essere-per-gli-altri” a prendere il sopravvento perché l’“essere-con-gli-altri” è comunque il nostro “essere ineludibile”. Ciampa “scrive”, ha un mondo suo, ma solo di notte, di nascosto, come i delinquenti, quando “gli altri” dormono. Ma, di giorno: “Io sono quello che gli altri dicono che io sia”. Io sono la doxa, il “si dice“. È proprio il “si dice” ad “essere” la stessa sostanza identitaria del mio “io”. È il “segno” della perversione del mondo degli altri. Quel “mondo degli altri” che percepisce il mio mondo come, appunto, il mio mondo (il mio essere) “appare” a lui, a quel mondo che “non” sono “io”. Ma chi sono “io”? Chi è questo “io”? Questo “io” che è uno, nessuno e centomila. Questo “io” è “uno” con me stesso e “un altro io” con ognuno degli altri “io” che vivono nella “società̀ dei pupi”: “Pupi siamo… Pupo io, pupo lei… Pupi tutti…”.
“Questo “io” è determinato, nel suo essere, dalle centomila interazioni sociali, amorose, erotiche, amicali che quelle “interazioni” contribuiscono a frammentare. È questo “io” fatto a pezzettini che non ha più scampo. L’unica speranza è difendere l’“io” dall’aggressione degli altri. Ma come? Ciampa usa spranghe alle porte, catenacci, paletti per difendere il suo “io”. Ma non ci riesce. È costretto a uscire, a “sporcarsi le mani”, direbbe Sartre. Esistere. Ma esistere vuol dire “mettere in gioco” se stesso. E allora la “corda civile” e la “corda seria” non servono più̀. È la “corda pazza” che scatta. E scatta per tutti. Non si può difendere il proprio “io” dagli attacchi del mondo. Non è possibile uscire dal mondo, uscire da noi stessi. Se lo facciamo siamo morti viventi“.