Se avesse continuato a studiare recitazione forse oggi parleremmo di lui come attore e non come cantante. D’altra parte la faccia per un lavoro del genere l’aveva. La persona di cui vi parliamo si chiama Brian Molko, il frontman dei Placebo, un gruppo rock alternativo che proprio quest’anno festeggia i 20 anni di attività e che stasera (Milano) e il 24 luglio (Roma) sarà in concerto in Italia per presentare il loro l’ultimo album (il loro settimo) Loud Like Love.
Ma torniamo a Brian. Nato nel 1972 in Belgio, da piccolo viaggiò parecchio, per via della professione del padre, un banchiere internazionale. Liberia, Libano, Lussemburgo. Fino ad una nuova L, Londra, che Brian scelse come meta, appena diciassettenne, per diventare attore. Amante della fotografia, dell’Arte e del Teatro, Molko si iscrisse al Goldsmiths College per imparare a recitare. E fu proprio per pagarsi le lezioni che cominciò a suonare in qualche piccolo locale, avvicinandosi sempre di più al mondo rock. Incontrando soprattutto sulla sua strada Stefan Olsdal, che in passato frequentò la sua stessa scuola in Lussemburgo. E’ così che nascono i Placebo.
Prima Robert Shultzberg, poi Steve Hewitt (1996-2007) ed infine Steve Forrest, dal 2008 a oggi: questi i tre batteristi che si sono alternati nei Placebo. Brian e Stefan invece sono i due capisaldi della band che parecchio pubblico italiano ricorderà per la loro esibizione al Festival di Sanremo nel 2001, quando Molko distrusse chitarra e amplificatore in diretta (con tanto di buuu, fischi e “scemo scemo”). Negli anni però i Placebo sono cresciuti e maturati sempre di più, avvicinandosi progressivamente a diverse tematiche sociali e scendendo in campo in prima persona contro ogni forma di Guerra e di violenza (storico è un loro concerto in Cambodia, il 7 dicembre 2008, contro il traffico degli esseri umani).
Restiamo un sito di cinema e non vi parleremo di tutti i loro album. Ma, visto che ci sta a cuore anche la società e il rapporto che ogni forma artistica ha con essa, abbiamo trovato particolarmente significativa una loro canzone, il primo singolo estratto dall’ultimo album, che si intitola Too Many Friends (Troppi Amici).
Il testo parla delle sempre più crescente solitudine di questi tempi in cui comunichiamo solo attraverso telefonini, computer, tablet. C’è senza dubbio una certa, sottesa, malinconia verso quei rapporti di amicizia che esistevano una volta e che ora, ahinoi, stanno scomparendo. Il virtuale che si fa reale, lo schermo che ci fissa, non il nostro amico o la nostra amica. Come recita il ritornello: “Troppi Amici che mai incontreremo e per cui non si saremo mai”. E poi le applicazioni, il dispiacere, il dolore e il sentirsi soli di questa epoca: “applications are to blame, for all my sorrow, my pain, feeling so alone”. Tutti zitti sui mezzi di trasporto, muti digitali, le nostra dita che sfiorano il touchscreen ci collegano ai nostri simili, mentre ci dimentichiamo di guardare il sole: “All the people do all day it staring into a phone”. Tutto quello che fanno le persone tutto il giorno è fissare il loro telefonino.
Lo stesso Brian, intervistato lo scorso settembre da Barbara Pantanella di XL (inserto di Repubblica), aveva affermato: “alcuni miei amici mi hanno detto di aver smesso di accettare nuovi amici su Facebook perché ne avevano troppi. Così ho iniziato a chiedermi se la vita sociale su internet stia diventando più importante della vita nel mondo fisico e che tipo di impatto questi network abbiano sulle nostre capacità di interazione sociale. Ed è così che è nato il testo della canzone”.
“Lo so – continua Molko – che ormai questa tecnologia fa parte del quotidiano e non è immaginabile tornare indietro…Sta all’individuo scegliere se adottarla o no. Io scelgo la seconda opzione semplicemente perché sento che non è nelle mie corde. Faccio già abbastanza fatica a tenermi in contatto con gli amici del mondo reale senza dovermi preoccupare della gente che non ho mai incontrato”.
Già, gli amici del mondo reale. Se esistono ancora, forse è meglio tenerseli stretti.
Giacomo Aricò