È da poco uscito Welcome to New York, l’ultimo discusso film di Abel Ferrara che sarà trasmesso oggi in streaming a livello mondiale. Una storia che ripercorre lo scandalo a luci rosse che ha coinvolto nel 2011 Dominique Strauss Kahn quando ai tempi era il Direttore del Fondo Monetario Internazionale. DKS si è infuriato e ha querelato Ferrara, considerato uno dei cineasti più influenti e innovativi della storia del cinema. Per parlare di questo regista mai banale, Cameralook ha deciso di intervistare il critico cinematografico e scrittore Fabrizio Fogliato, autore del libro Abel Ferrara – Un filmaker a passeggio tra i generi per Sovera Edizioni.
Prima di tutto che uomo è Abel Ferrara nella vita di tutti i giorni?
E’ un uomo che non fa distinzione tra vita reale e set; ma questo è fin troppo ovvio dato che è lui stesso a dichiararlo in continuazione. Per capire la quotidianità di Abel Ferrara basta vedere il suo documentario Mulberry St. Ne viene fuori il ritratto di un artista “all’antica” poco scaltro e persino ingenuo, talmente preso dalla sua arte e dalle sue suggestioni/visioni da non preoccuparsi né degli aspetti produttivi, né tanto meno di quelli economici (non a caso è perennemente alla ricerca di fondi per “girare”). Ferrara nel quotidiano è una di quelle persone con cui staresti delle ore seduto al tavolino di un bar consumando una cassa di birra, ascoltando le sue storie e cercando di decifrare il suo modo di parlare che è al contempo incomprensibile e ammaliante.
Perché lo ritiene, parole sue, un “regista anomalo”? Quanto ha cambiato il cinema e il modo di fare cinema?
Perché, forse, è l’unico regista a cui non si può (e non si deve) chiedere la perfezione. Il fascino delle sue opere (tutte) sta nell’irresolutezza, in quella capacità pressoché unica di far seguire a intuizioni geniali rovinose cadute di tono: segno inconfondibile della sua sincerità. Di per sé non ha cambiato il cinema (e chiedergli di fare questo sarebbe una delle cose che potrebbe farlo più arrabbiare), ma ha sicuramente plasmato la sua arte a sua immagine e somiglianza: pulsione, istinto, “disordine”, genio e dubbio.
Complessivamente, che società è quella che Ferrara ha rappresentato in tutti i suoi film? Com’è cambiata, con il passare degli anni, la modernità che ci ha mostrato?
Scorrendo la sua filmografia non si può che vedere come gli scenari delle sue vicende siano universali. Certo, di decennio in decennio, il suo cinema ha cambiato pelle ma non si è mai adattato. Ferrara continua a non ripetere se stesso e, soprattutto, a raccontare l’uomo e i suoi comportamenti e le sue relazioni. Pertanto, possono cambiare lo scenario, il contesto temporale, il budget a disposizione, ma la sua visione dell’umanità è sempre critica, dubbiosa, piena di domande, senza risposte. Non è caso, un elemento mai abbastanza sottolineato nella sua filmografia è quello parodistico: quello che lui utilizza per farsi beffe del conformismo, del perbenismo, del moralismo, del potere, dell’ipocrisia e degli atteggiamenti accademici.
La contrapposizione Bene-Male e il tema del libero arbitrio ricorre spesso nei suoi film, anche attraverso generi diversi. Qual è il messaggio che Abel vuole farci arrivare? Lei ha parlato di una filmografia morale e non moralista.
Se mi è concesso vorrei subito sgombrare il campo da un equivoco, e cioè dal fatto che il tema centrale del cinema ferrariano sia quello religioso (tema che nel libro è solo marginale). Ritengo, infatti, che il conflitto tra Bene-Male in Ferrara sia, solo, una sorta di chiave di lettura delle vicende umane (non a caso ritengo che Mary sia il suo film più “furbo”). Pertanto la sua “visione morale” è un qualcosa che pone interrogativi, che vuole lasciare allo spettatore il peso e la responsabilità della risposta. Nel suo cinema non c’è mai moralismo, perché il primo a non giudicare è proprio lo stesso Ferrara. I personaggi dei suoi film sono naufraghi, uomini e donne alla deriva alla ricerca di se stessi, così come di una ragione per vivere (e, forse, una per morire).
Una mente creativa e un artista a tutto tondo che ha realizzato anche spettacoli teatrali, documentari, serie Tv, format, videoclip…
“L’importante è agitarsi” come dice lui. Nel libro ho, infatti, voluto dare ampio spazio oltre ai suoi lavori inediti a tutto ciò che egli ha realizzato senza fare distinzioni né di forma né di approfondimento tra cinema e altri media. Ecco perché il lettore, in questo caso, più che di fronte ad una monografia può avere la sensazione di trovarsi davanti la biografia del regista raccontata attraverso le sue opere. Con il mio lavoro spero di essere riuscito a trasmettere questa sensazione, perché ritengo che solo così si possa raccontare la grandezza di quest’artista: sollevando dubbi, critiche e contrarietà, perché il cinema di Abel Ferrara non può trovare tutti d’accordo.
Secondo lei quali sono i tre film chiave di questo regista? Personalmente qual è il suo preferito?
Così, in modo secco: Ms. 45 (L’angelo della vendetta), The Addiction – Vampiri a New York, The Blackout. Il mio preferito, invece è The Driller Killer.
Quali saranno i prossimi lavori di Ferrara? Cosa si aspetta?
E’ entrato in una nova fase che potremmo chiamare quella della verità, o meglio, della ricerca della verità. Il film che sta facendo discutere sulle vicende erotico-giudiziarie di Dominique Strauss-Kahn dal titolo-parodia Welcome to New York e il lavoro che sta ultimando su Pier Paolo Pasolini sono lì a testimoniarlo.
Intervista di Giacomo Aricò
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