Da poche settimane è uscito in libreria Scrivere Per Il Cinema E La Televisione, un vero e proprio manuale per tutti gli aspiranti sceneggiatori per il grande e piccolo schermo scritto da Cristina Borsatti per la collana Scrivere di Editrice Bibliografica (lo trovi QUI). Scritto in modo appassionato e appassionante, questo testo rappresenta una cassetta degli attrezzi che aiuterà il lettore a scrivere soggetti, trattamenti, concept e scalette. A creare personaggi e dialoghi, trame ed episodi, tutti al servizio di un’idea da sviluppare e saper vendere. Il libro vi guiderà nella stesura di una sceneggiatura, una forma unica di letteratura, in bilico tra parola e immagine, attraverso l’apprendimento di convenzioni e strategie indispensabili per imprigionare alla perfezione il film su carta. Ricco di esempi e di citazioni illuminanti dei più grandi sceneggiatori e registi nella storia del cinema, questo manuale immergerà il lettore nelle intramontabili dinamiche del racconto, volte a catturare lo spettatore finale. Per approfondire il contenuto del libro – che, da appassionati di cinema, vi consigliamo vivamente – ho fatto una chiacchierata con l’autrice Cristina Borsatti, non solo mia collega giornalista, ma anche story editor, sceneggiatrice, autrice televisiva e insegnante di sceneggiatura presso l’Accademia di Cinema e Telvisione Griffith di Roma.
È in libreria Scrivere per il Cinema e per la Televisione, un manuale che tu hai definito come una “cassetta per gli attrezzi” per chi vuole scrivere sceneggiature, soggetti, scalette, concept… Com’è nato questo libro?
Sono molti anni che ci giro attorno. Nel tempo, ho avuto più di una proposta, occupandomi di sceneggiatura da parecchio. Temevo di scrivere “l’ennesimo manuale di sceneggiatura”, l’ammetto. Sul mercato ce ne sono davvero tanti. Poi è arrivato l’invito da parte di Editrice Bibliografica. La loro collana “Scrivere” sposava perfettamente la mia idea: proporre un manuale da rivolgere agli apprendisti sceneggiatori, un testo di base, insomma, quello che avrei voluto leggessero i miei studenti di sceneggiatura all’Accademia di Cinema e Televisione Griffith, dove insegno. Hanno poco più di vent’anni, tanta passione e tanto da imparare. Sono stati la mia fonte di ispirazione e la mia guida nella stesura di questo libro.
The Story of Films, la monumentale opera a episodi realizzata da Mark Cousins sulla storia del cinema, inizia con il principio di tutto: le idee. È dalle idee che nascono le storie, i film, il cinema. Ti volevo chiedere: come nasce un’idea? Esiste un modo, un allenamento mentale, per continuare a creare storie? Penso ad un genio/maestro come Woody Allen che realizza film ogni anno da 40 anni!
Avere un’idea non si insegna. Lo dico sempre ai miei studenti, ma poi passo in rassegna tutte le fonti di ispirazione di un’idea. Credo che conoscere i tratti fondamentali di un dramma, di una storia, aiuti. Aiuta a fiutare una buona idea e a farsene venire. Hai ragione quando parli di allenamento, anche la nostra mente ha bisogno di una buona palestra. È necessario essere curiosi, essere attenti osservatori del mondo che ci circonda e della natura umana. Appuntarsi anche minuscole idee è il primo passo, facciamo presto a dimenticarle altrimenti. Se la nostra mente è desiderosa di afferrarle le fonti sono infinite. In fondo, in ogni attimo della nostra esistenza potrebbe nascondersi quella scintilla che chiamiamo idea.
La nascita di un’idea, un fantastico momento creativo, come un’epifania, un’illuminazione. È più un istinto emozionale – anche difficile da definire – o più un ragionamento razionale?
Istinto e ragione vanno a braccetto. L’atto creativo credo sia sempre istintivo, irrazionale. Ma, una volta avuta l’illuminazione, va processata, con rigore. E qui entrano in campo le nostre conoscenze. La parte razionale deve intervenire per valutare la “correttezza” della nostra idea. È l’idea alla base di una storia, la vogliamo raccontare a qualcuno, quindi abbiamo più di qualche responsabilità.
Dall’idea al soggetto, dal soggetto alla sceneggiatura. Il nostro mondo, viaggia a velocità supersonica, siamo sommersi da incessanti stimoli visivi, il virtuale sta sostituendo sempre più la realtà, anche per quanto riguarda le relazioni interpersonali. Che epoca è questa per creare storie? Esiste un rischio saturazione nel creare qualcosa che non è stato ancora raccontato in questo pianeta dominato dallo storytelling?
Non credo. Mi piace pensare che raccontiamo la stessa storia da sempre, quella di esseri umani alle prese con l’esistenza. Temi e storie si ripetono, in fondo i sentimenti umani sono quelli dalla notte dei tempi. La differenza la fa sempre l’individuo, ognuno è diverso dall’altro, è speciale, oggi come ieri. È nella nostra unicità che risiede quella delle opere d’arte.
Un’idea buona com’è che va coltivata? Nel tuo libro si parla anche della capacità di “venderla”. Ovvero?
Mi capita spesso nel mio lavoro di story editor di imbattermi nella fretta. Quella di autori che non vedono l’ora di raccontarti la loro idea, e quindi lo fanno male. Non danno il tempo all’idea di prendere forma, di contenere al suo interno il minimo indispensabile. Per esempio un finale, tanto per intenderci. Non sai quante volte, mi raccontano goffamente stralci di storie che poi si interrompono bruscamente. Spesso non riescono a catturare la mia curiosità, ma anche se sono in grado di farlo, il fatto che manchi un pezzo, e la fine è un pezzo da novanta, non lascia propriamente soddisfatti. Consiglio di dialogare con gli addetti ai lavori attraverso gli strumenti più consolidati. Un soggetto, ad esempio. Due cartelle ben scritte e molto ponderate che contengano l’inizio e la fine della storia, che facciano presagire che la parte centrale sarà coinvolgente, che lo saranno personaggi e temi. Due paginette così richiedono un tempo di gestazione e di riflessione.
Scrivere per il cinema. Scrivere per la tv. Cosa cambia?
Cambia parecchio, anche se una storia e sempre una storia. Inoltre, le cose cambiano da un Paese all’altro. Da noi, ad esempio, la televisione è una piccola industria, mentre il cinema contemporaneo è una bottega. Questo produce molti elementi di diversità. Un esempio per tutti riguarda la figura dello story editor. Se nel nostro cinema è pressoché assente, tranne eccezioni, nella nostra tv ci sono tantissimi professionisti preposti a dar vita ad una buona sceneggiatura e in grado di stimolare e sorreggere il lavoro di uno sceneggiatore. Da un punto di vista drammaturgico, la differenza riguarda il concetto di serialità. Un film e una fiction televisiva si basano su medesimi principi e meccanismi, ma il film punta a intrattenere due ora circa, il prodotto televisivo minimo per una decina di ore, come avviene nella miniserie, e con tante pause in mezzo. E questo cambia tutto. Il discorso è molto complesso, meriterebbe un volume a parte. Pensiamo anche e solo ai personaggi. Quelli della tv li conosciamo molto più lentamente ma anche molto più approfonditamente, un po’ come avviene con i nostri amici. Fanno piccoli passi in avanti, minimi cambiamenti. Ci aspettiamo di ritrovarli, identici o quasi, negli episodi a venire. Molto cinema mette invece in scena veri e propri archi di trasformazione, e alla fine l’avventura vissuta cambia il protagonista, nella speranza che a cambiare siano un po’ anche gli spettatori.
Cinema italiano. Quanto i limitati budget a disposizione stanno portando i filmmaker a realizzare idee originali che si adattano alle risorse disponibili? Penso a pellicole come Perfetti Sconosciuti, Il Nome del Figlio, The Place, o Dobbiamo Parlare, a forte impostazione teatrale…
Forse uno dei pochi effetti positivi dei limiti di bugdet. Il luogo unico stimola la fantasia e può, se gestito bene, creare un certo coinvolgimento nel pubblico. Pensa a quanto può far bene, ad esempio, alla claustrofobia. Il luogo unico e chiuso, impenetrabile e inospitale non lascia scampo, chiude tutte le uscite e impone ai protagonisti di non abbandonare l’avventura. I personaggi sono letteralmente imprigionati. Una sensazione facile da comprendere se si pensa alla bara dello spagnolo Buried – Sepolto, all’innevato Overlook Hotel di Shining o alla stanza cubica di The Cube. Più in generale, le unità (di luogo, ma anche di tempo, azione, tono e tema) fanno bene ai racconti.
Cinema Francese. Per quanto riguarda le commedie, spesso ci troviamo a realizzare remake. Sono superiori a noi?
Il cinema francese sta sfruttando bene i suoi mezzi, soprattutto nella commedia, ma anche nel poliziesco. Puntano sui giovani e curano due aspetti fondamentali per la riuscita di un film: la scrittura e la recitazione. Attualmente, abbiamo solo da imparare.
Cinema Statunitense. Qui i mezzi non mancano, per ogni genere. Tu quali storie preferisci? Invenzione o biopic? I blockbuster o i film indipendenti?
Ho le mie passioni, ovviamente, per esempio adoro la fantascienza. Ma preferisco risponderti in maniera più generica. E diversa. Mi piacciono i film in grado di appassionarmi e di emozionarmi, a prescindere dal genere di appartenenza o dal fatto che siano mainstream o indipendenti. Mi piacciono i film ben scritti, quelli che osano ma non si dimenticano mai dello spettatore. A volte i mezzi non bastano. Il cinema americano spesso sorprende anche quando i budget sono piccoli. Di solito, non vorrei ripetermi, anche per gli americani scrittura e recitazione sono due aspetti importantissimi.
Idee sottomesse ai ricavi. Saghe, reboot, sequel, prequel, remake. Sempre più con un ritorno al passato, a caccia del pubblico nostalgico. Tu cosa ne pensi di questo tipo di cinema?
È un argomento che mi affascina. Un po’ di anni fa ho scritto un libro dedicato alla pratica del remake. Ho cercato di guardarlo da più punti di vista. Ovviamente, dietro al proliferare di saghe, reboot, sequel, prequel e remake si nascondono logiche commerciali. Si ritiene che le idee nuove siano più rischiose, e si preferiscono quelle che hanno già funzionato. Ma liquidare così il discorso sarebbe un po’ riduttivo. Esistono anche opere nate per omaggiare l’originale, autori così innamorati di un film da desiderare di rimetterci le mani, rifacendolo o riprendendone parti di trama e personaggi. Penso al remake-calco di Psycho di Gus Van Sant o alle tante citazioni-omaggio del cinema contemporaneo. Rifare può fare bene all’opera di partenza.
Qualche esempio?
Quando ho visto per la prima volta il remake di King Kong, quello del 1976 di John Guillermin, ero una bambina. Credo di averlo visto in tv all’inizio degli anni Ottanta. All’epoca non potevo sapere si trattasse di un remake di un film del 1933 in bianco e nero, ma è stato davvero in grado di suggestionarmi. Che fosse un remake l’ho scoperto diversi anni dopo, ho cercato il film di Shoedsack e Cooper, l’ho visto e forse oggi sono qui a parlare di cinema grazie a questa pellicola. Questo per dirti che riproposizioni e rifacimenti permettono ai film di coinvolgere più generazioni e di sopravvivere alla forza del tempo. Per certi versi, permettono a trame e personaggi di farsi Mito.
Da Truffaut a Hitchcock, che cito non a caso, il tuo libro è ricco di citazioni. Qual è la tua preferita? Quella che può essere presa come simbolo del tuo volume?
Ovviamente, mi piacciono tutte, ma in testa ho inserito quella di Howard Hawks. Il regista di Scarface – Lo Sfregiato, de Il Grande Sonno e di Un Dollaro D’Onore una volta ha detto: “Per un buon film, c’è bisogno di una buona sceneggiatura, una buona sceneggiatura e una buona sceneggiatura”. Ovvio che è necessario anche altro, ma è bello che a dirlo sia un regista. Sono convinta che regia, sceneggiatura e recitazione debbano suonare all’unisono.
Domanda difficile. Se dovessi proprio scegliere, qual è la sequenza cinematografica che ti è rimasta nel cuore?
È proprio difficile. Posso citarne almeno due? La sequenza del teatrino dei burattini ne I 400 Colpi di Francois Truffaut e quella in cui, ne La Finestra Sul Cortile di Hitchcock, Grace Kelly entra nella casa dell’assassino. La prima perché racchiude il senso dell’intero film grazie a immagini di una tenerezza assoluta. La seconda perché è una grande lezione di cinema. Una scena di suspense che spiega allo spettatore come faccia questo straordinario meccanismo a coinvolgerlo così tanto. Mi fermo qui, ma è proprio difficile dover scegliere.
Altro botta e risposta. Mi dici chi sono i tuoi sceneggiatori preferiti di sempre? Dimmene uno straniero e uno italiano.
Billy Wilder e Agenore Incrocci, il mitico Age. Semplicemente, Maestri.
Come spettatrice, quando guardi un film, hai più un occhio critico che valuta la scrittura o ti lasci andare di più all’emozione?
L’emozione, sempre al primo posto. Se la provo non mi viene neanche lontanamente la tentazione di fare analisi. Certo, quando le cose non funzionano, la prima cosa che faccio e cercare di capire perché.
Eliminare la noia, produrre emozioni. Vorrei che lasciassi un tuo personale messaggio-insegnamento a chi vuole iniziare questo lavoro. Come si crea un’emozione?
Sei in vena di domande impossibili. In poche righe è difficile provare a spiegare come si crea un’emozione. Direi che nasce grazie ai personaggi, devono essere vivi, umanissimi. Devono muoversi all’interno di storie ben raccontate capaci di parlare un linguaggio universale. Ti basta?
Intervista di Giacomo Aricò