Cinquant’anni fa Roman Polanski girò il suo primo film lontano dalla Polonia, quell’agghiacciante Repulsion con protagonista assoluta una splendida ed angosciante Catherine Deneuve. La pellicola fu presentato in Concorso al Festival di Berlino, dove vinse l’Orso D’Argento, il premio speciale della giuria e il premio FIPRESCI. Ancora oggi, dopo oltre mezzo secolo, è considerata l’opera più spaventosa di Polanski.
Il film parte da un dettaglio dell’occhio di Carol (Catherine Deneuve), giovane manicure belga, vive a Londra con la sorella Hélène (Yvonne Furneaux). Timida, impacciata e androfoba, Carol avverte con disagio e ripugnanza la costante presenza di Michael (Ian Hendry), l’amante di Hélène, nell’appartamento dove abita, tanto da non sopportare neppure la vista dei suoi oggetti personali. La ragazza è mentalmente disturbata: a scatenare la sua preoccupante psicosi, è soprattutto il sesso, un aspetto della sua vita che ha totalmente represso.
Per questo rifiuta-repelle le attenzioni di Colin (John Fraser), un ragazzo che la corteggia e pure con garbo. I due si incrociano all’esterno, ma mentre lui è euforico solamente standole accanto, lei è catatonica, persa nel vuoto, assente. Uno stato d’animo che sembra avere anche al lavoro: nemmeno il grande salone di bellezza riesce a smuoverla dalla sua morbosa ritrosia e dal suo continuo ricadere in uno stato di allucinata separazione dal mondo.
Quando Hélène e il suo compagno partono per una breve vacanza in Italia lasciandola completamente sola (a nulla serve il suo tentativo di convincere Hélène – totalmente sorda – a non partire), il suo fragile equilibrio psichico spezza definitivamente e precipita in un abisso. Carol diventa ogni giorno sempre più vittima di incubi, allucinazioni sessuofobiche e deliri. Le stanze diventano trappole mortali, i rumori di tutti i giorni riecheggiano come misteriose minacce, i muri si riempiono di crepe e le pareti stesse prendono vita generando braccia incorporee che tentano di afferrarla. Un fantasma, l’Uomo, le viene a far visita più volte, costringendola a letto per violentarla.
La casa diventa l’immagine della sua anima: abbandonata, alla deriva. I piatti sporchi si ammassano in cucina, le patate mettono le radici e un coniglio è abbandonato in uno stato di decomposizione nel salotto. Carol ne stacca la testa, mettendola nella borsa. Un gesto ripugnante che verrà notato da una sua collega di lavoro, nell’unico momento del film in cui vediamo Carol ridere. Si tratta di un momento fugace, perché anche al salone la protagonista diventa sempre più distratta e inaffidabile (una cliente si ferisce per colpa sua), inventandosi scuse poco plausibili per giustificare le prolungate assenze.
Ormai del tutto dissociata e fuori dal mondo, Carol ucciderà Colin, l’unico veramente interessato a lei. Quando l’uomo entra di forza nell’appartamento, lei è pronta ad ucciderlo brutalmente per poi immergerne il corpo nella vasca da bagno. Una sorte che toccherà anche al padrone di casa, sempre più scocciato per il ritardo dei pagamenti di sua sorella Helene. Dopo diverse telefonate, l’affittuario si presenterà a casa, proponendo a Carol si pagare “in un altro modo”. L’uomo pagherà con la vita dopo che avrà tentato di abusare di lei.
Appena tornati, Hélène e Michael si ritrovano nell’appartamento, diventato un raccapricciante teatro dell’orrore. Carol è inerme, quasi senza vita, e l’amante della sorella la porta via dal massacro che ha compiuto nell’ultima fase della sua paranoia. Mentre il film si avvia alla dissolvenza finale, la macchina da presa scivola volutamente nel salotto distrutto. Inquadra piccoli dettagli – un orologio che ticchetta, un cracker sbriciolato – e suggerisce che forse, all’ultimo momento, un’immagine particolare potrebbe dare accesso all’inconscio della protagonista.
Una spiegazione sembra essere imminente: sullo schermo compare una fotografia di Carol da piccola in compagnia della famiglia. Il padre e la madre sembrano allegri, ma un primo piano del volto della bambina rivela che sta guardando lontano, assente. La macchina da presa si avvicina ancora di più e nei suoi occhi vediamo brillare, inconfondibile, la scintilla della follia.
Non sapremo mai l’origine del suo tormento, Polanski si è limitato a mostrare la fotografia (come fece Kubrick nella chiusura di Shining) senza spiegare il mistero della sua mente. Lo spettatore è quindi libero di interpretare l’ultima immagine liberamente, in bilico tra destino (è nata così? È sempre stata in conflitto con il mondo?) o trauma violento (è stata abusata dal padre? O da un altro adulto? Ha assistito ad una violenza carnale rimanendo scioccata per sempre?).
La Repulsione (questo il titolo della versione italiana) di Polanski è stato il primo lungometraggio in lingua inglese del regista. Un’opera spaventosa e angosciante, volutamente claustrofobica e asfissiante, anche grazie all’accorto e stimolante uso dei suoni e dell’uso del grandangolo e della profondità di campo. Film in bianco e nero fortemente espressionista, in cui il luogo della storia diventa, tra delirio-immaginazione-realtà, simbolo di una coscienza tormentata.
La bellezza sconvolgente di Catherine Deneuve, sempre impassibile, stride con il marcio che ha dentro e che porta in tutta l’abitazione, travolta in una spirale di autodistruzione. La sua paura di abbandono (quando Hélène sta per partire, l’assilla per farle cambiare idea) si riversa sulla casa. La bestialità che teme di vedere (anche se inconsciamente la desidera) in ogni uomo, la scatenerà lei stessa in due raptus omicidi. Lo psycho-thriller di Polanski diventa così “propedeutico” alla rivoluzione sessuale che scoppierà in tutto il mondo solo tre anni dopo (1968), mostrandoci quanto sia pericolosa la repressione sessuale per la nostra salute mentale.
Scritto insieme Gerard Brach, Repulsion è, come disse lo stesso Polanski, “la descrizione del paesaggio del cervello di Carol e anche l’analisi puntigliosa dell’itinerario sociale ed esterno da lei compiuto per arrivare a sé stessa”. Un viaggio che inquieta ancora oggi, ed è questa la forza dei capolavori.
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