Oggi vi vogliamo presentare un progetto molto affascinante che sta prendendo piede e che si chiama Kultura70. Si tratta di un’associazione culturale che vuole diffondere la cultura degli anni ’50, ’60, ’70 attraverso un vasto archivio fotografico comprendente stampe fotografiche vintage. Scatti davvero unici, fotografie e istantanee che ritraggono le più grandi personalità artistiche del passato, soprattutto appartenenti al mondo della settima arte. Divi, dive e grandi registi: osservare questi pezzi di memoria – vere e proprie opere d’arte, al pari di un dipinto d’autore – ci permette di provare le stesse emozioni che si provano nella sala del cinema. Quelli che ammiriamo sono miti, immortali, entrati nell’infinito. Di tutto questo ne abbiamo parlato con il Presidente dell’associazione, Giuseppe Ferraina.
Buongiorno Giuseppe, prima di tutto parlaci di Kultura70. Di che progetto si tratta? A chi si rivolge? Quali obiettivi si pone?
Buongiorno Giacomo, ti ringrazio. Kultura70 è un’associazione culturale neocostituita, di cui sono presidente, e la propria mission è quella di propagandare, diffondere, distribuire la cultura degli anni ’50-’70, attraverso mostre fotografiche, soprattutto attraverso la fotografia vintage: quella stampata nell’arco dei 5 anni dallo scatto. Certamente ci si rivolge ad una élite, come sempre quando si parla di cultura (ancora di più quando è con la “K”), ma questa élite mi capita sempre più di scorgerla negli occhi dei giovani e ciò mi riempie il cuore di gioia. Questo mi fa pensare che stiamo procedendo verso la direzione di quell’orizzonte che ci siamo posti io e gli altri soci nel dar vita a questa idea di nutrizione attraverso le immagini.
Gli scatti dell’archivio ci offrono uno spaccato dell’Italia che fu. Istantanee che diventano testimonianza di un preciso momento storico. In alcuni casi (negli anni ’50-’60 il cinema italiano era un modello anche per Hollywood) alcuni scatti sono di film, ma potrebbero anche essere foto “rubate” dalla vita reale, simboli di un Costume, di una Società. Tu cosa ne pensi?
Erano gli anni in cui la gente incominciò a scrollarsi di dosso i traumi, le ferite inferte dalla guerra. E come capita a colui che la scampa miracolosamente da un grosso pericolo, dopo gli viene per reazione una gran fame di vita. Questo è quello che trovo risuoni da queste immagini.
Quando si osservano tutte le fotografie insieme, una accostata all’altra, sembra di assistere ad un film. Divi, artisti, italiani e stranieri, immortalati a feste, incontri, sul set di un film. Eroi ed esempi di una fabbrica dei sogni che, ancora oggi, ci portano altrove, tra malinconia e nostalgia. Com’era il divismo ai tempi? Quanto è lontano da quello (sempre più narcisistico) di oggi?
Anche a me fa questo preciso effetto. In verità i piani sequenza di un film o quelli di di una mostra fotografica sono simili, solo che nel secondo caso il pubblico è più libero, meno indotto dal flusso comunicativo, in quanto il fotogramma singolo temporizza favorendo l’introspezione nel fruitore, ricreando una immagine potenziata dalla propria soggettività. Per quanto riguarda il divismo, credo sia l’epifenomeno del “Narcinismo” dell’uomo contemporaneo, sempre più deietto, inautentico.
Da dove nasce secondo te il gusto dilagante per il vintage? Bauman la chiamava “retrotopia”: perché siamo attratti da fotografie di un passato lontano (che talvolta non abbiamo nemmeno vissuto)?
Non conosco il pensiero di Bauman, ma credo che in questo particolare “gusto” sia coinvolta la necessità primaria dell’uomo: quella di “tracciare”, di trovare una soluzione alla sparizione, alla propria caducità, grazie a un supporto che custodisca la presenza. Autore o fruitore, non cambia, questo è il fascino della scrittura.
Gli scatti autentici diventano, con il passare del tempo, veri e propri oggetti di valore, vere e proprie opere d’arte. Soprattutto se contrapposte alla fotografia digitale del nostro tempo: immediatamente riproducibile, copiabile, modificabile, stampabile. Cosa pensi di questo aspetto?
Credo che l’idea di artisticità dopo l’epocale avvento di internet, vada rivista. E ci sarebbe tanto da parlare in merito. Concordo pienamente con te sul fatto che scatti eseguiti da professionisti di quegli anni, che all’epoca erano considerati solo dei fotografi, acquisteranno sempre più dignità di opere d’arte. Questo processo innanzitutto di mercato è iniziato già da un po’, premiando soprattutto gli autori che hanno lavorato nell’ambito del reportage. Ma se dovessi personalmente consigliare un acquisto ad un amico, adesso, non avrei alcun dubbio, collezionare, visto che lo si può ancora fare investendo piccole somme, la stampa vintage, soprattutto quella che ritrae il fermento culturale degli anni ’60 e ’70, aldilà di chi sia l’autore. Lasciatevi guidare dalla vostra sensibilità, dal valore iconografico, dal valore sociale, dalla traccia che racconta di essa. Ovviamente anche nell’acquisto di una stampa vintage ci vuole un minimo di accortezza, non chissà quale competenza. Premuratevi di osservarne il retro, vi racconterà molto sulla storia di questo splendido oggetto di carta. Ci sono stampe il cui retro è zeppo di timbri di agenzie fotografiche che tal volta ci raccontano tanto della sua storia. Altre il cui retro porta appunti o ritagli di giornali in cui l’immagine è apparsa. Didascalie e altro tanto ancora. Si può dire che il retro di una fotografia vintage, tante volte, è un vero mondo storiografico.
Secondo te (sulla scorta delle più recenti teorie filosofiche sul tema) quali caratteristiche rendono l’immagine del tutto diversa da altre rappresentazioni, per esempio dei segni verbali?
Il fenomeno è frutto di una mediazione, quella del linguaggio che domina l’uomo. Escludendo l’immediatezza della presenza alla coscienza (l’ultimo approccio a tal proposito fu dato dalla fenomenologia di Husserl e poi dopo fu portata avanti dal suo allievo Heidegger e successivamente decostruita da Derrida e ampliata da Levinas) non vi sarebbe alcuna separazione tra il visivo e il verbale. Ma dal punto di vista pratico, cioè intendo dire con questa parola l’attiva ludica, didattica, estetica, informativa ecc. le “differenze” (banalizzando questo termine) è chiaro che ci sono. Le immagini aiutano a trovare. Aiutano più che il verbale a “costruire intorno al vuoto” come direbbe Lacan. Ti confesso che personalmente ho sempre creduto che in particolare modo la fotografia, soprattutto quella vintage, sia di grande aiuto alla coscienza etica dell’uomo. Ogni fotografia ci impone di fugare (rovistare) nell’anima del mondo.
Il valore o il potere evocativo dell’immagine può oscurare il suo valore concettuale? Ovvero: quanto un’immagine limita la riflessione o quanto riesce a riassumere più di mille parole?
Dipende cosa si intende per concettuale. Se per concettuale intendiamo il potenziale informativo-narrante dei segni presenti all’interno del campo percettivo di un supporto, la “Differenza” (e qui adopero il termine in modo più complesso) “fa l’opera”. Non vi è altro autore che la differenza e quindi il valore concettuale, che poi sarebbe quello narrativo, ricadrebbe addosso al fruitore. Quindi non vi sarebbe nulla di oscurato, visto che la luce sarebbe in questo caso un differimento di coscienze. Se consideriamo il valore concettuale in riferimento a quello delle neo-avanguardie statunitensi o a quello teorizzato dalla Millet, no, non ci sarebbe scampo alcuno per il potere evocativo, ma quello monosemico di una estetica svuotata di valore entropico, quindi interpretativo e la presentazione dell’oggetto come immagine piena e universale. Nel primo caso vi sarebbe un’opera aperta, nel secondo l’esatto opposto. C’è però un tipo di immagine che non limita la riflessione e va oltre un miliardo di parole, questa è la ricerca artistica. Attenzione, non ho detto opera, ma ricerca. Cioè mi riferisco a quel tipo di immagine -forse meglio dire preimmagine- che è pensiero oscillante,contro-linguaggio, riformulazione di idioletto, alterità.
Una conseguenza può essere questa: una fotografia innesca l’emotività più che l’intelletto. Sei d’accordo?
Per me non si esce fuori dal linguaggio, restiamo sempre nel quartiere dell’intelletto. La fotografia però credo abbia un enorme potenziale interrogativo. Scava nelle nostre coscienze, ponendoci difronte i problemi essenziali che assillano l’uomo, quelli di natura ontico-ontologica. La fotografia in realtà è sempre esistita, è la vita che si fa oggetto, materia, carne del tempo.
L’intenzionalità di chi, in varie forme, crea l’immagine può scostarsi anche grandemente dall’interpretazione di chi guarda se c’è l’occhio critico dello spettatore? Un’immagine può creare conformismo sociale più dell’espressione verbale?
Una immagine è poetica ed è tale in quanto possiede un flusso informativo ad alto valore entropico, quindi questo tipo di immagine offre l’individualità dell’interpretazione. In antitesi c’è l’immagine pubblicitaria, che di poetico non ha nulla e neanche di artistico. La comunicazione d’altronde ha questo scopo. È fatta così.
Secondo il regista Michael Haneke “il nostro occhio è uno schermo” che può lasciarsi assorbire dal cliché sociale dell’immagine ma può anche accogliere lo sguardo dell’altro. Cosa ne pensi?
Siamo tutti volti con lo sguardo verso l’infinito e per questo bisogna avere grande rispetto e responsabilità delle parole e dell’immagine.
Anni fa lessi un piccolo saggio dove si affermava che la fotografia è come la morte: cattura un istante che finisce nel medesimo momento in cui nasce, un momento irripetibile, unico, che dura il tempo di un flash. Nel caso delle fotografie dell’archivio, abbiamo sotto i nostri occhi sia momenti andati per sempre, sia, purtroppo, per alcuni di loro, artisti che non ci sono più. Volevo chiederti se queste fotografie, in questi termini, possano diventare mezzo/strada per portare questi divi in carne ed ossa nel Mito, in una dimensione che li rende eterni. Se vuoi dimmi che ne pensi…
Il saggio che hai letto credo di averlo letto anche io un po’ di anni fa. Ma ci tengo nel dirti questo: Giacomo io amo la fotografia; ne amo la prassi, i risultati estetici, la tecnica, tutto e da tempo. Da quando iniziai a frequentare all’età di quindici anni una specie di istituto professionale, a Napoli, con specializzazione in fotografia. All’epoca avevamo un professore di laboratorio molto incline alla lettura della Gazzetta Dello Sport e alle disquisizioni calcistiche più che interessarsi alla materia che avrebbe dovuto svolgere. Un giorno ci diede un compito (credo lo fece fondamentalmente per toglierci dalle scatole) che trovai fondamentalmente stupido. Ma sai Giacomo, forse fu la cosa che mi cambiò di più nella vita. Ci disse sorridendo: “vi do un compito: andate a fotografare i monumenti“. Allora decisi di prenderlo in giro. Pensai che se il monumento evidentemente è ciò che si immortala, allora decisi di andare a fotografare i monumenti nel cimitero degli uomini illustri. Verso la fine del secondo rullino (non ne avevo Altri a disposizione) vidi una tomba il cui epitaffio era totalmente coperto dall’edera. Ci rimasi un po’ male, mi sembrò una cattiveria, per via di quella ulteriore cancellazione. Non mi chiesi se avessi fatto bene o male e tolsi con foga tutta l’edera. Era la tomba di uno dei più importanti poeti napoletani e scrittore dei testi delle più belle canzoni melodiche. Era la tomba di Libero Bovio. Si narra che quando andava da casa sua al Mattino dove lavorava come giornalista la gente lo applaudiva tanto da spaventare i cavalli che lo trasportavano in carrozza. Lessi sulla tomba le sue parole dedicate a Napoli, di come la definì: ” ‘a passione mia”. E altre parole. Non ti nascondo che piansi per un po’. Non terminai il rullino. Lo riavvolsi. E me ne andai.
Intervista di Giacomo Aricò