Vincitore del Premio del Pubblico al 57° Festival dei Popoli, esce in sala giovedì 13 aprile Un Altro Me, l’ultimo film di Claudio Casazza girato all’interno di un carcere insieme ad un gruppo di detenuti condannati per violenze sessuali.
Presentato in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre 2016, il lavoro di Casazza è il risultato di un anno passato nella Casa di reclusione di Bollate, a Milano, al seguito dell’Unità di trattamento intensificato del team di criminologi guidato da Paolo Giulini. Impegnati in un progetto sperimentale di trattamento dei colpevoli di reati sessuali, cosiddetti sex offenders, i terapeuti lavorano per ridurre la possibilità che i detenuti, una volta scontata la propria pena, tornino a commettere lo stesso tipo di reato.
Il film è un viaggio negli spazi fisici e nelle dinamiche mentali in cui vivono i detenuti protagonisti: tra loro Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino e Enrique. Tutti hanno esercitato violenza contro una donna e sono stati riconosciuti colpevoli. Cosa pensano del proprio reato? Quali sono gli alibi culturali con cui lo spiegano? Come cercano di deresponsabilizzarsi e come immaginano di comportarsi una volta usciti dal carcere? I detenuti si raccontano, senza sconti, e il team di Giulini li guida, li ascolta, si scontra con le loro resistenze, discute al suo interno su come procedere con il lavoro.
Ha detto il regista, Claudio Casazza: “volevo riuscire a mantenere un terreno equidistante tra gli autori dei reati e l’istituzione che li cura, ponendomi virtualmente al centro tra gli uni e gli altri, e rendere il film un territorio aperto in cui affrontare la discussione portando i propri dubbi e le proprie certezze”. Il regista ha deciso di “non sapere che tipo di reati avevano commesso i detenuti che filmavo nel percorso di trattamento per restare il più possibile aperto, senza pregiudizi e senza avere già delle sentenze in mano. E volevo che questo atteggiamento si riflettesse nel film”.
Casazza ritiene che il documentario “non rappresenti solo un dialogo a due che si instaura tra condannati e terapeuti, ma è costantemente un dialogo anche con lo spettatore perché ciascuno possa farsi delle domande, avere il proprio percorso di consapevolezza e trarne le considerazioni che vuole”.
Pur non potendo evitare di trattare realtà dure e dolorose, Casazza ha voluto “togliere qualsiasi dettaglio che potesse apparire voyeuristico, per costruire un territorio aperto nel quale ciascuno possa riflettere su un reato che sebbene sembri sotto gli occhi di tutti, rimane per lo più sommerso, taciuto e troppo poco compreso”.