In occasione della Giornata Della Memoria, dal 25 al 27 gennaio esce al cinema come evento Gli Invisibili, il film diretto da Claus Räfle che racconta in modo accurato e commovente un capitolo poco conosciuto della storia tedesca: la resistenza degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.
Berlino, 1943. Il regime nazista ha ufficialmente dichiarato la capitale del Reich “libera dagli ebrei”. Tuttavia alcuni di loro sono riusciti in un’impresa apparentemente impossibile: sono diventati ‘invisibili’ agli occhi delle autorità. Tra questi Cioma, Hanni, Eugen e Ruth, quattro giovani coraggiosi troppo attaccati alla vita per lasciarsi andare ad un triste destino.
Per addentrarci nel film, vi proponiamo l’intervista rilasciata dal regista Claus Räfle.
Signor Räfle come è nato il progetto?
Gli Invisibili trae origine da un altro documentario. Dieci anni fa ho girato un documentario per la televisione sul leggendario bordello di spie naziste noto come “Salon Kitty”. Era un posto frequentato da diplomatici e ufficiali di alto grado che era stato messo sotto controllo con microspie dalle autorità dell’intelligence tedesca. Ma lì si nascondeva anche una berlinese ebrea con documenti falsi. Questo aveva acceso la mia curiosità. Insieme alla mia coautrice Alejandra López ho allora cominciato a fare ricerche per saperne di più sugli ebrei berlinesi che si nascondevano e che vivevano in clandestinità. La nostra ricerca si è dimostrata fin dall’inizio un successo, facendoci scoprire moltissimi casi. Dall’Ottobre del 1943 all’Aprile del 1945, circa 7.000 berlinesi entrarono in clandestinità. All’inizio della Seconda Guerra mondiale circa 160.000 ebrei vivevano ancora in Germania, la maggior parte a Berlino. E dei 7.000 che riuscirono a scampare alla deportazione, oltre 1700 riuscirono a salvarsi proprio a Berlino. Questo fu possibile grazie anche ai berlinesi cristiani di buona volontà che sfidarono gli ordini delle autorità. Da questo punto di vista il film documenta una parte della storia della Resistenza. Questo aspetto è stato per noi molto importante fin dall’inizio, indipendentemente dal fatto che queste storie sono di per sé molto emozionanti e commoventi.
Come ha fatto a trovare testimoni dell’epoca?
Prima di tutto ci siamo rivolti al Centro del Memoriale della Resistenza tedesca di Berlino, che ospita il gruppo di ricerca del Centro per la Memoria degli Eroi silenziosi. I suoi storici hanno dedicato molti anni a queste vicende accadute in un contesto illegale. Con il loro aiuto siamo riusciti a stabilire i primi contatti, scoprendo poi che la maggior parte di coloro che riuscirono a salvarsi aveva lasciato quel luogo di terrore dopo la guerra. I più erano emigrati in altri Paesi, in America, in Sud America, in Francia e in Svizzera. Abbiamo fatto i primi incontri nel 2009 e un po’ alla volta abbiamo stretto il cerchio del nostro interesse focalizzandoci su quattro storie. Quella di Cioma Schönhaus, un giovane berlinese ebreo nato nel 1922 e che all’epoca aveva lavorato come falsificatore di passaporti, trasferitosi in Svizzera. A Parigi abbiamo incontrato Hanni Lévy, che un tempo si chiamava Hannelore Weissenberg. A loro si è aggiunta Ruth Arndt, figlia di un medico di Kreuzberg, a Berlino, che, dopo la guerra, aveva sposato un giovane incontrato in clandestinità e di cui si era innamorata. Questo li aveva aiutati a sopravvivere. La quarta storia è quella del più giovane dei quattro ‘invisibili’, Eugen Friede, anche lui di Kreuzberg. Aveva un patrigno cristiano e una madre ebrea che, grazie alle leggi sui matrimoni misti, non era perseguitata. Per cui la cosa strana era che di questa famiglia composta da tre persone il solo costretto a portare la stella gialla era il sedicenne Eugen.
Ci può parlare della struttura insolita del film, che combina finzione ad estratti di interviste?
Abbiamo scelto questo formato ibrido perché volevamo raccontare la storia di queste quattro persone nel modo più credibile, autentico e aderente alla realtà possibile. Le brevi affermazioni rese dai reali protagonisti contribuiscono a dare potenza, autenticità e ritmo alla storia. I diversi livelli si intrecciano, e la cosa funziona molto bene. I nostri eroi, quelli che all’epoca hanno vissuto le esperienze raccontate, sono persone anziane che si avvicinano alla fine della loro vita, eppure raccontano le loro storie con grande vivacità e con una luce negli occhi. Le raccontano con un tono da cui traspare un desiderio di riconciliazione. Sono testimoni diretti del fatto che a Berlino non tutti i tedeschi erano nazisti. C’erano anche brave persone che hanno lasciato un ricordo incancellabile. Questo non un’implica un’assoluzione generale da parte loro, ma solo una disponibilità alla riconciliazione. In fondo è lo stesso messaggio che vorrebbe trasmettere il film, se mai un film fosse capace di trasmettere messaggi.
Le storie dei quattro protagonisti sono raccontate in modo parallelo e non si sovrappongono mai. Tuttavia ci sono due figure di raccordo che compaiono in episodi diversi. Una di queste è quella dell’elettricista Werner Scharff.
Werner Scharff era un artigiano cresciuto a Berlino, e un uomo buono. Aveva affittato una bottega nella Waldstrasse insieme a Cioma Schönhaus e al suo amico Ludwig Lichtwitz. Ci era riuscito grazie all’aiuto di un autista dell’ambasciata afgana, un berlinese. Venne poi arrestato dalla Gestapo e avrebbe dovuto essere mandato ad Auschwitz. Ma ebbe fortuna e fu deportato ‘solo’ a Theresienstadt. Scharff fu uno dei pochissimi che riuscì a fuggire, finendo in una famiglia di Luckenwalde, la stessa che aveva offerto rifugio a Eugen Friede. Ma Scharff non si nascose come qualsiasi altro clandestino che al suo posto avrebbe probabilmente fatto. Era pieno di odio e di rabbia nei confronti dei nazisti, dopo aver appreso a Theresienstadt che ad Auschwitz i prigionieri venivano uccisi nelle camere a gas. Decise perciò di entrare nella Resistenza per informare la gente di ciò che aveva scoperto, stampando e distribuendo volantini. Florian Lukas interpreta la parte con passione e con la tipica aria schietta dei berlinesi.
Mentre Scharff è in un certo senso una figura eroica, la traditrice ebrea Stella Goldschlag è invece una specie di antagonista.
Stella Goldschlag è una figura tragica. Appena ventenne, straordinariamente attraente, era entrata anche lei in clandestinità ma venne catturata e costretta a collaborare con i nazisti. Lei dovette piegarsi e cominciò a lavorare come informatrice della Gestapo, girando per Berlino sotto copertura e finendo col provare un certo piacere nell’emozione della caccia. Causò la morte di centinaia di ebrei berlinesi che si nascondevano. Due dei nostri protagonisti entrarono in contatto con lei: Ruth Arndt e Cioma Schönhaus, che la conoscevano dai tempi della scuola.
Come è iniziata la sua collaborazione con l’operatore Jörg Widmer, noto specialista della Steadicam?
Cercavo qualcuno che da operatore avesse un linguaggio visivo molto mobile ma con un approccio poetico al materiale di base. Non volevamo il tipico look nazista che si vede spesso nei film ambientati in quell’epoca. Le storie che gli anziani raccontano dovrebbero avere qualcosa di favolistico. Sono storie caratterizzate dalla riconciliazione, ma sono anche piene di suspense e di umorismo. Ecco perché volevo una griglia di colori che fosse poetica e Jörg Widmer ci è riuscito, lavorando bene con il capo tecnico delle luci Horst Mann.