Capelli bagnati e corrosi dal sale. La pelle secca e abbronzata. Un costume e una tavola da surf, curata in modo maniacale. E tutta la voglia oltrepassare i limiti umani, sfidando l’onda più grande che c’è. Stiamo parlando della magia del surf, che negli anni è stata raccontata dal cinema in modo diverso, passando da parabola esistenziale di vita e amicizia fino ad essere lo scenario perfetto di un western acquatico a cavallo di onde.
Partiamo dal film cult Un Mercoledì da Leoni di John Milius. È la storia di tre amici uniti dal surf che si ritrovano sulla stessa spiaggia, dal 1962 al 1974. È uno scenario immobile che fa da sfondo a quel passaggio naturale che vede il ragazzo diventare uomo. A sostenere questa parabola evolutiva della vita sono anche gli stessi dialoghi metaforici e i gesti che ne amplificano il significato.
Ed è proprio l’inizio del film che ci fa capire il sapore amaro di una giovinezza perduta, passando da una divertente quanto nostalgica estate anni ’60 a una meditazione su cos’è l’amicizia, i doveri e la vita. In opposizione l’ultima scena: tre amici, Matt, Jack e Leroy, che si ritrovano ancora una volta su quella stessa spiaggia a cavalcare la grande onda, temprati dalla vita, esperienze e scelte. Molto vicino a The Endless Summer, capolavoro di Bruce Brown che mostra Mike Hyston e Robert Augus, due surfisti che viaggiano per il mondo, alla ricerca dell’onda perfetta.
In Blue Crush, Anne Marie (Kate Bosworth), vuole diventare una famosa campionessa di surf, partecipando a un’importante gara che si disputa alla Hawaii, il Pipe Master. Il punto di vista è tutto al femminile: la costanza di una giovane ragazza che si alza presto ogni mattina per allenarsi, per superare le proprie paure e cercar di vincere in uno sport che da sempre è dominio incontrastato degli uomini.
Acqua come mezzo di rinascita, da sempre è simbolo di purificazione, origine. Nella vita ci sono i libri, le sedute. Qui, l’unica terapia è il surf e l’acqua. Interessante anche la nuova posizione che il gruppo di ragazze assume: emancipazione e conquista di una disciplina per lo più maschile. La subcultura del surf non è solo uno sport per uomini e a raccontarlo già nel 1959 con Gidget, dove Sandra Lee trova amore e surf in un colpo solo, durante un’indimenticabile estate.
Passiamo al successo di Point Break, 1991 di Kathryn Bigelow. La trama racconta la storia di un gruppo di surfisti californiani che compiono una serie di rapine, utilizzando delle maschere, capitanati da Patrick Swayze. La vicenza si intreccia a quella di un giovane agente dell’FBI, Keanu Reeves, che da qui ebbe la sua ascesa come stella del cinema, consacrando quella dell’attore co-protagonista, già famoso con Dirty Dancing.
Il tema del surf si unisce all’azione, grazie a un ritmo serrato e a una serie di virtuosismi che inseguono le scene più movimentate. Nonostante il plot, ancora una volta l’amicizia maschile tra Bodhi-Utah (Swayze- Reeves) è il nodo centrale. Diventando così un esempio perfetto di bromance. Il remake di Ericson Core del 2015 ha tutt’altra misura, quella dello sport estremo. Considerato sacrilegio il taglio della scena finale che racchiude tutto il significato del surf e del rapporto che si instaura tra l’uomo, la tavola e le onde, e l’amicizia leale tra uomini.
Drift, altro surfing movie, questa volta ispirato ad una storia vera, girato nel 2013 da Ben Nott e Morgan O’Neil. Siamo sulla costa australiana degli anni ’70: Andy e Jimmy vivono con la madre, il primo lavora mentre il secondo è un prodigo del surf. Rivalità e melodramma tra i due fratelli (Sam Worthington) e tra le bande locali, saranno il tema centrale, trasformando così la pellicola in un western acquatico. Interessante l’evoluzione del surf, non più visto solo come sport, ma ora come business. Se in Un Mercoledì da Leoni avevamo Bear (e la scita della nota marca), qui diventa pura strategia per arrivare all’industria milionaria quale conosciamo, con tanto di tavole di design e tute acquatiche. Di grande suggestione le riprese acquatiche.
Paradise Beach, in uscita il 26 agosto 2016 in Italia, è una pellicola sull’orlo della fantascienza, che dimentica completamente i valori del surf, coinvolgendo lo spettatore in un thriller teso. Protagonista Nancy, Blake Lively, che a seguito di un’incidente si trova sola su uno scoglio a poca distanza dalla costa. Attorno a questo lembo di roccia si aggira uno squalo bianco, attirato dalle ferite della surfista, che sta aspettando con pazienza la sua vittima. Ritroviamo la paura acquatica dello squalo, già raccontata in modo filmico più volte, così come l’istinto alla sopravvivenza dell’uomo in situazioni estreme e in solitudine, già viste in 127 Ore, Gravity e The Martian – Sopravvissuto.
Ecco che i surfing movie hanno in qualche modo raccontato il cambiamento della società e di relazioni umane: da sport che (ri)unisce, a confronto con se stessi e i propri limiti. L’uomo singolo supera il gruppo e i rapporti inter-personali. Ma se nei film tutto è possibile (è la magia del cinema!), cosa ci resterà a noi nella realtà? Forse vale la pena riprendere in considerazione qualche vecchio e sano valore dell’amicizia per cavalcare anche le onde più grandi.
Selene Oliva