Il 28 maggio 1921, un secolo fa, nasceva Dirk Bogarde. Per ricordarlo, oggi vi parleremo di un film che lo vide protagonista, Morte a Venezia, la pellicola diretta nel 1971 dall’immenso Luchino Visconti e tratta dal romanzo La Morte a Venezia dello scrittore tedesco Thomas Mann. Presentato in concorso al 24º Festival di Cannes, grazie al quale Visconti vinse un Premio speciale del venticinquesimo anniversario, è il secondo capitolo della “trilogia tedesca”, di cui fanno parte anche La Caduta Degli Dei (1969) e Ludwig (1972).
Il film
Venezia, 1911, il compositore Gustav von Aschenbach (Dirk Bogarde) si reca al Lido, all’Hotel des Bains, per un periodo di riposo al fine di riprendersi da una crisi cardiaca di cui aveva sofferto qualche tempo prima. Qui, il maturo protagonista resta colpito dalla bellezza efebica di un giovanissimo polacco, Tadzio (Björn Andrésen), che frequenta la spiaggia dell’hotel. Se ne infatua, e l’innamoramento provoca nel suo animo una crisi profonda che lo porta, da un lato a contrastare questo suo sentimento, e dall’altro a volerlo assecondare vivendone tutte le emozioni.
Egli deciderà alla fine di rimanere silenziosamente accanto al ragazzo, limitandosi a osservarlo e a cercare di continuo a resistere alle sue emozioni a cui, però, cederà spesso, tanto da ricorrere alla tintura dei capelli e a un trucco pesante, presso un barbiere, nell’illusione di conservare una giovinezza ormai superata. Gustav non lascerà più Venezia, nonostante gli sia ormai chiaro che vi imperversa un’epidemia di colera. Sempre più debole, trascorrerà i suoi ultimi momenti sulla spiaggia del Lido in contemplazione del suo amato.
Il finale
C’è una sequenza che rimane impressa, una scena che visualizza il momento in cui gli artefici vengono meno e la propria condizione mortale non può più essere negata. Vediamo un barbiere veneziano aprire un flacone di tintura nera per applicarla sulle ciocche ingrigite di Gustav. Mentre gli applica il rossetto rosso, la matita sugli occhi e un tocco finale di cipria, lo adula dicendo: “proprio le persone come lei non dovrebbero essere schiave di preconcetti in fatto di naturalezza o artificio“. Tuttavia il trucco lo rende simile a un cadavere e lo fa sembrare ancora più vecchio; quando si ritrova un ascensore affollato o i musicisti ambulanti lo circondano con fare canzonatorio, l’uomo si ritrae, a disagio.
In preda all’ossessione nata da poco per l’angelico Tadzio, l’idealista che trasforma l’erotismo in concetti astratti rimane chiuso in se stesso, incapace di rivolgere la parola al ragazzo anche mentre lo segue per la città colpita da un’epidemia di colera. Contagiato e vicino alla fine, lo aiutano a raggiungere una sedia a sdraio sulla spiaggia dove, pur nella disperazione, è deliziato dalla vista di Tadzio che lotta con un giovane italiano; ma all’improvviso un rivolo di tintura, nero come la morte, fa capolino sotto il cappello di paglia e gli cola lungo il viso febbricitante, come se lo stesse marchiando per il sonno eterno. Con un gesto enigmatico Tadzio punta il dito verso il mare, colorato di rosa dal tramonto, e poi si volge indietro a guardare l’uomo morente, ormai tragicamente solo mentre la sua sciocca vanità si scioglie come neve al sole.
Aschenbach accetta il destino, rinuncia al suo violento desiderio e infine soccombre: gli inservienti portano via il suo corpo in “un memorabile campo lungo, elegiaco quanto impietoso“, come scrisse Robert Keser. Un momento immortale del cinema che ha avuto il volto di Dirk Bogarde.