Dopo essere stato presentato in competizione all’ultimo Festival di Cannes è da oggi al cinema Ma Loute, il film surreale scritto e diretto da Bruno Dumont con protagonista il trio composto da Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi e Fabrice Luchini.
Estate 1910. Diversi turisti scompaiono mentre si stanno rilassano sulle splendide spiagge sulla costa della Manica. I famigerati ispettori Machin (Didier Després) e Malfoy (Cyril Rigaux) individuano presto come epicentro delle sparizioni la baia di Slack, un luogo unico, dove l’omonimo fiume ed il mare si congiungono solo con l’alta marea. Nella zona vive una piccola comunità di pescatori e di allevatori di ostriche, tra i quali la singolare famiglia Brufort, guidata come meglio può dal padre, soprannominato “L’Eterno” (Thierry Lavieville) e composta da un cospicuo numero di figli burloni, tra cui l’impetuoso diciottenne Ma Loute (Brandon Lavieville).
La dimora dei van Peteghem (Fabrice Luchini, Valeria Bruni Tedeschi, Juliette Binoche, Jean-Luc Vincent) si affaccia torreggiante sulla baia. Ogni estate, questa famiglia della borghesia – degenerata e decadente in seguito ai matrimoni consanguinei – trascorre le proprie languide giornate nella villa, non disdegnando tuttavia di passeggiare, veleggiare o nuotare in mezzo alla gente del posto, tra cui Ma Loute e i suoi familiari. Nell’arco di cinque giorni, ha origine una storia d’amore molto particolare tra Ma Loute e la giovane e androgina Billie van Peteghem (Raph), un legame destinato a scuotere entrambe le famiglie, le loro convinzioni, i loro stili di vita.
Eccovi ora qui sotto le note di Bruno Dumont, suddivise per temi.
Origine del film – “Mentre ero alla ricerca di un soggetto per una commedia da girare nella Costa d’Opale – la regione che conosco bene e nella quale vivo – mi imbattei in alcune vecchie cartoline, in particolare, alcune che mostravano i “Passeurs de la baie de la Slack”, gli abitanti del posto, che trasportavano le persone del ceto medio da una riva all’altra del fiume Slack all’inizio del XX secolo. È stato quello lo spunto iniziale per il film e per la storia: i Brufort da un lato, i Van Peteghem dall’altro, la love story e le misteriose sparizioni. Lavorando alla sceneggiatura, ho collegato tra di loro le cartoline”.
Un film in costume – “La storia ha luogo nell’estate del 1910. L’inizio del XX secolo vede la comparsa del ceto borghese, dell’industria, del capitalismo e, di conseguenza, della lotta di classe. Si tratta di un racconto delle origini, un film primitivo sulla nostra epoca. Noi spettatori di oggi sappiamo che quel mondo verrà sconvolto, che la Prima Guerra Mondiale scoppierà quattro anni più tardi. Per la prima volta, mi sono trovato a dover ricreare un paesaggio ormai scomparso. Le cartoline dell’epoca mi hanno permesso di farlo. Poiché la storia ben presto va fuori controllo, volevo un’ambientazione che incarnasse tale follia. Mi sono ricordato del Typhonium a Wissant, una casa in stile neoegiziano costruita alla fine del XIX secolo, uno di quegli edifici, che nel Nord Passo-di-Calais veniva chiamata una folie”.
Alle origini del Burlesque – “Il mio riferimento cinematografico primario è stato Max Linder, con la sua comicità tutta francese dalle maniere borghesi, un po’ maldestro, e, dopo tutto, coevo dell’azione del film. Ho anche tenuto presente l’opera di Stanlio e Ollio (Stan Laurel e Oliver Hardy), di cui amo in particolar modo la dinamica corporea delle capriole, cadute e scivoloni. Il duo costituito dall’ispettore Machin e dal suo vice si muove nella stessa direzione, quanto ad aspetto fisico – il piccoletto ed il ciccione – il loro modo di vestire – completo nero e bombetta – e poi Machin continua a cadere, a rotolare, inizia persino a prendere il volo. D’altronde, tutti i personaggi del film cadono e scivolano per poi riprendersi o persino sollevarsi in aria, come Valeria Bruni Tedeschi nella scena del miracolo. È un cinema delle origini in quanto i primi film erano farse e commedie, che spesso davano una svolta comica a situazioni od azioni appartenenti alla cultura ed al mondo della borghesia”.
Una miscela di generi – “Si trattava di abbracciare tutte le sfaccettature dell’essere umano, la duplicità dell’uomo, capace di tutto e del contrario di tutto, facendo un film al contempo divertente, toccante, inquietante, commovente e pieno di suspense. La storia del cinema è la storia della separazione dei generi, io invece voglio che la gente rida e pianga. Adoro la commedia italiana, i grandi film di Dino Risi o di Ettore Scola, come Brutti, Sporchi e Cattivi, che riesce a coniugare insieme commedia e tragedia, dove il peggio ispira la risata, che assurge a nobiltà. Ho giocato la carta del dualismo sapendo che l’incontro dei Brufort e dei Van Peteghem sarebbe stato esplosivo. Ho poi annodato questi opposti con un intrigo amoroso, che ho reso ulteriormente complesso introducendo una dimensione di incongruità, un ulteriore strato, l’indagine di polizia, che dona suspense e mistero alla narrazione. Con Ma Loute intendevo in ogni caso generare una reazione comica. Ero certo che l’aspetto sociale avrebbe presto ceduto il posto al crescente senso del grottesco”.
Oltre le convenienze – “Il cinema può andare oltre ciò che è ragionevole e rendere possibile ciò che è proibito. I Brufort sono antropofagi, si cibano letteralmente della borghesia, ed i Van Peteghem sono incestuosi, legati da matrimoni consanguinei, da rapporti degenerativi. Due famiglie mostruose, ciascuna a modo suo. La mia regia spinge questi estremi ai limiti. Il risultato avrebbe potuto essere orrendo, persino insopportabile, ma al contrario risulta divertente perché la commedia è alimentata dalla tragedia. Ho volutamente calcato la mano, fino a raggiungere la dimensione del grottesco, alla ricerca della funzione catartica che un tempo il cinema possedeva e pare aver in un certo modo perduto da quando è diventato puro intrattenimento. Ma Loute va oltre le convenienze sociali e morali, e trasgredisce i tabù per meglio alimentare la commedia e radicarla nella realtà. Volevo trovare la risata nelle situazioni serie, nelle zone d’ombra. Dovevo solo trovare la distanza giusta per farlo: l’auto-compiacimento è una purga”.