Nell’epoca del #MeeToo, del dibattito di rilevanza linguistica per termini come Ministra o Avvocata, idee come “quote rosa” può essere solo un sintomo dell’arretratezza culturale, perché i diritti e le pari opportunità non riescono a stare al passo con la velocità dell’era digitale. Siamo fermi, ristagnati ancora in una mentalità dove le parole “diversità” e “inclusione” hanno un sapore amaro. Tutto risiede in un arcaico-ancestrale sentimento che è la paura. La paura del diverso che impedisce (a qualcuno) di vedere la diversità come ricchezza. Quello che però fa veramente paura, è che esiste una narrazione tossica post Rivoluzione Francese e post Sessantotto che alimenta questo sentimento. Sappiamo bene che è più facile e comodo affidarsi alla cultura dello stereotipo o del pregiudizio anziché cercare di crearsi una coscienza (o conoscenza) propria. Ecco spiegato l’arcano per cui oggi abbiamo bisogno delle quote rosa, perché esiste un movimento femminista di terza generazione e perché c’è l’esigenza di narrare la molteplicità.
Di tutti questi aspetti ne ho parlato con Cristina Zanetti, co-fondatrice di Immaginaria – International Film Festival of Lesbians & Other Rebellious Women – rassegna che si terrà a Roma dall’11 al 14 Aprile, presso il Nuovo Cinema Aquila – una realtà tutta italiana (e anche qui possiamo prenderci il merito!) che nasce proprio con l’obiettivo di portare al centro del cinema le donne, davanti e dietro la camera. Le donne qui diventano soggetto-oggetto politico: richiedono visibilità, nonché la voglia di “esercitare i propri diritti e portare all’esterno le proprie espressioni culturali e artistiche”. L’obiettivo è rompere il silenzio, per combattere la mercificazione del corpo e della mente femminile.
Come nasce Immaginaria – International Film Festival of Lesbians & Other Rebellious Women? Perché un festival completamente dedicato alle donne?
Immaginaria nasce a Bologna nel 1993, come un progetto dell’Associazione Culturale Lesbica Visibilia. Per tutti gli anni Novanta e oltre dominò la scena bolognese e italiana in quanto manifestazione pionieristica, all’epoca la prima nel suo genere, intesa a contrapporre agli stereotipi, alle caricature, alle deformazioni, alla criminalizzazione e alla patologizzazione del cinema mainstream, un’immagine realistica della donna lesbica, attraverso la proposta di un cinema indipendente internazionale diretto da donne. Allo stesso tempo, la forte componente femminista aprì subito il Festival al vasto mondo delle donne, perché non si trattava di restituire dignità solo alla donna lesbica ma a tutte coloro che lottano a qualsiasi latitudine. Da allora l’obiettivo è sempre lo stesso: raccontare le vite, la cultura, l’arte, la storia, la politica delle donne presenti e passate, lesbiche, femministe, audaci, coraggiose e ribelli, impegnate in tutto il corso della storia a costruire un mondo diverso. La ribellione di cui parliamo non ha nulla di violento, è una ribellione all’oppressione, alla discriminazione, alla subordinazione, è il rifiuto dei ruoli imposti, è un atto di libertà e di autodeterminazione, ed è solo attraverso la ribellione che le donne possono produrre grandi cambiamenti culturali. Siamo consapevoli che il Festival ha un sottotitolo dal forte impatto emotivo, ma perderemmo il nostro pubblico se diluissimo la nostra dichiarazione identitaria. Un pubblico che non è solo un pubblico cinematografico ma è soprattutto un soggetto politico, una comunità che richiede visibilità, che vuole esercitare i propri diritti e portare all’esterno le proprie espressioni culturali e artistiche. Il nostro focus sono le donne e ancora il marcare questa differenza continua a incontrare resistenze. Il Festival ha subito delle battute d’arresto nel corso della sua storia ma è stato attualmente rilanciato a Roma, dove si svolgerà la 14esima edizione al Nuovo Cinema Aquila dall’11 al 14 aprile 2019.
Negli ultimi venti anni la cifra di presenze femminili nei ruoli strategici nell’ industria cinematografica è diminuita. Si parla di un piccolo 7% per quanto riguarda Hollywood. Si possono considerare inefficaci le campagne per le pari opportunità?
Le campagne per le pari opportunità e le quote di finanziamenti pubblici destinati a progetti che prevedono interventi territoriali e/o nazionali a favore delle donne nei vari settori occupazionali della società, anche se potenziate, non basterebbero da sole a colmare l’atavico gap culturale in cui versa l’Italia, a rovesciare una tendenza inscritta nel DNA di un Paese rimasto drammaticamente indietro rispetto alle politiche di genere. Anche nel mondo del cinema, da sempre feudo maschile, si ripropone la stessa diseguaglianza. Tutte le agenzie educative dovrebbero muoversi nell’unica direzione possibile, quella di creare spazi di crescita, libertà e dignità per le donne, ed è paradossale che l’attacco maggiore continui a provenire dai media audiovisivi, cui adesso si sono aggiunti i meandri della Rete, attraverso lo spaccio diretto di violenza e misoginia e nelle forme più lievi di modelli che incatenato la donna ai ruoli patriarcali. Si prenda ad esempio la pubblicità che, a parte qualche sporadico caso, continua a riproporli con ostinata assiduità.
Il fenomeno pare non essere circoscritto in America: in Dove sono le registe donne?, la ricerca di Ewa, European Women’s Audiovisual Network, sottolinea che questa differenza esiste almeno in sette Paesi, inclusa l’Italia. Del nostro Paese cosa ci può dire?
È statisticamente accertato che l’Italia occupa gli scalini più bassi della presenza delle donne nell’industria cinematografica, superata anche da alcuni Paesi africani. Ne abbiamo la prova continua nella nostra militanza cinematografica, ecco la ragione per la quale Immaginaria compie una scelta di campo, schierandosi dalla parte delle donne, per trovare, raccogliere e diffondere le loro opere. Per raggiungere lo scopo ci rivolgiamo al mondo parallelo del cinema indipendente internazionale, quello che non arriva nelle sale italiane, che è l’unico al momento in grado di offrire un ampio panorama di tematiche e di registe che, pur non avendo raggiunto la parità numerica, stanno diventando sempre più numerose. Dal nostro osservatorio riscontriamo che molte giovani donne si stanno specializzando nelle Scuole di cinema nei ruoli di registe, sceneggiatrici, montatrici, operatrici di macchina, ma la sfida sarà vedere quali e quanti spazi di espressione troveranno in Italia una volta terminati gli studi. Potremmo forse aggiungere che la facilitazione dell’accesso e la semplificazione della regolamentazione dei bandi del MIBAC o delle Film Commission Regionali potrebbero giovare alle nuove generazioni di registe e di produttrici. Si tratta di iter complessi e scoraggianti, che vengono vissuti più come ostacoli che come fattori incentivanti.
Bisogna inoltre osservare che la quota degli stanziamenti per la cultura in Italia e per il cinema in particolare è insufficiente a garantire la crescita e lo sviluppo di una (pregevole) produzione nazionale. Sempre in tema di finanziamenti pubblici, si assiste a un fenomeno tutto italiano, cui vanno soggetti anche i Festival cinematografici, il quale spesso premia autori o realtà già forti, strutturate e avviate, e non scommette e non investe su progetti innovativi e di grande valenza culturale che realmente necessitano di tutto il sostegno possibile per nascere e svilupparsi. Pensiamo alla copiosa produzione canadese, per fare l’esempio di un Paese che investe sul cinema in modo capillare e costante. In quella che si configura come una lotta per accaparrarsi i finanziamenti istituzionali e/o privati è facile immaginare che fine facciano le donne, soprattutto quando lavorano su temi scomodi e impopolari perché sconosciuti. Negli ultimi 4/5 anni sono usciti una manciata di film italiani molto importanti di grande levatura, non faccio nomi, ma non vi sono registe fra questi.
Perché diversità e inclusione restano due concetti lontani dalla realtà del mondo del cinema?
Il mondo del cinema non è un’isola felice, anzi è uno di quegli ambienti in cui viene amplificato l’aspetto più becero della mercificazione del corpo delle donne, come dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, dai recenti outing del movimento Me Too. È fondamentale che le donne rompano il silenzio, afasia che per mala educazione introiettata contiene una dose massiccia di senso di colpa, di omertà e paura delle reazioni degli uomini, e che denuncino queste indegne pratiche di scambio. Come potrebbe il mondo del cinema contenere in sé gli anticorpi della misoginia? Da dove gli verrebbero? Solo perché si presume sia composto da uomini colti ed eleganti, da intellettuali e artisti? La misoginia è un fenomeno interclassi, transnazionale, planetario. E viene anche il sospetto che gli uomini temano inconsciamente la concorrenza femminile, il mondo dell’arte, dalla scultura alla pittura è colmo di esempi di artisti che hanno spacciato per proprie le opere delle compagne, delle amanti o delle allieve. Ciò è avvenuto anche in campo scientifico, dove sono stati scippati di mano alle donne diversi Premi Nobel.
Donne in Corto è un progetto di Immaginaria, è la vostra risposta a questa disparità nell’ambito cinematografico?
Sì, il Concorso nasce allo scopo di incentivare la produzione di cortometraggi da parte delle filmmaker italiane perché a maggior ragione nell’ambito del cinema a tematica lesbica e femminista si lamenta un vuoto di produzione, tranne pochi casi isolati, che non trova uguali a livello internazionale, mentre ci provengono film di varia durata da Filippine, Kenya, Porto Rico, Venezuela, Polonia, Israele, per non parlare di Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Germania, Svezia, Francia. Siamo il fanalino di coda dell’Europa (e del mondo) anche nel circuito LGBTQ. Ed è un peccato perché i talenti non ci mancano e Immaginaria intende trovarli. La stessa Immaginaria è un laboratorio dimostrativo di quanto le donne possono fare mettendosi insieme. Oltre ai film, che rappresentano il cuore del Festival, il pubblico prende atto della composizione del team di Immaginaria, composto al 100% da donne. Un ulteriore messaggio che dimostra la capacità e l’abilità delle donne di ricoprire, anche nel cinema, ruoli tradizionalmente maschili. Traduttrici, interpreti, scrittrici, montatrici, filmmaker, webdesigner, grafiche, fotografe, proiezioniste, attrezziste, esperte di tecnologie informatiche e digitali, giornaliste, ognuna presta le sue competenze professionali a titolo di volontariato, indicandolo fra l’altro come una modalità virtuosa di impegno culturale e sociale. Un atto dimostrativo importante, per trasmettere forza e fiducia le une nelle altre.
Da sempre il cinema ha il potere di far sognare ma ha anche un ruolo educativo, fa parte del bagaglio culturale che una persona si porta appresso. Cosa ne pensa della figura femminile davanti alla macchina da presa, come soggetto? Non è ancora troppo spesso incanalata nello stereotipo di “oggetto del desiderio”?
I personaggi femminili nascono ancora nella maggior parte dei casi dalle penne degli sceneggiatori (uomini), oppure dai personaggi dei romanzi degli scrittori (uomini), e successivamente portati a forma compiuta dalla mano dei registi (uomini). Come potrebbe un loop del genere produrre figure alternative di donne? Cosa possiamo aspettarci da una simile filiera? Esistono recenti pregevoli esempi di cinema diretto da uomini che narrano di figure femminili forti e fuori dal tracciato, ma restano casi isolati e si tratta perlopiù di film di nicchia per veri cinefili. Lo sguardo imperante e assiomatico è ancora quello maschile. Ecco perché Immaginaria vuole le donne dietro la cinepresa, nella sceneggiatura, nella fotografia, perché è dal loro sguardo che abbiamo qualche possibilità che scaturiscano visioni e narrazioni diverse.
Misantropia contro misoginia. Sussurri e Grida, negli anni 70 è stato lodato come esempio di “film di donne”, ma Constance Penley ha pubblicamente dichiarato la sua posizione avversa, denunciando Bergman per la sua manipolazione dell’esperienza femminile ai fini dell’arte. Al contrario il personaggio di Lolita nella pellicola di Kubrick si denota più un lato misantropo. Come si distingue il sottile confine tra misantropia e misoginia, nel cinema?
Nessun uomo, nessun regista, anche il più colto, sofisticato e sensibile, può fare un film di donne. Può fare un film sulle donne, un film in cui le donne sono i personaggi principali, e questi personaggi si muoveranno in contesti e situazioni e reciteranno caratteri e ruoli stabiliti nella sceneggiatura. La sceneggiatura non è un’entità astratta che si autoproduce e sforna verità universali, ma una scrittura il più delle volte in mano a sceneggiatori uomini che vedono e raccontano le donne a modo loro. Le storie, i plot, possiedono un sottotesto che la critica cinematografica femminista snida e disvela con precisi strumenti d’analisi. Senza entrare nel merito dei due film citati e di due registi enormi quali Bergman e Kubrick, possiamo dire che il primo mette in scena una situazione domestica claustrofobica, benché dorata, e dunque per definizione oppressiva nei confronti delle donne che poi l’agiscono con tutti i limiti e le deviazioni patologiche derivanti dal regime di cattività. Il secondo ha una trama e uno sviluppo talmente paradossali che non si capisce chi sia il vero burattinaio, il motore dell’intera vicenda, e chi strumentalizzi chi. L’Arte è libera di utilizzare delle metafore, anche estreme, ma spesso (s)cade, più o meno esplicitamente, nella colpevolizzazione delle donne. La misoginia è sempre in agguato, anche nel cinema, e i “portatori sani” sono forse i più pericolosi. Se per misantropia intendiamo l’odio nei confronti degli individui di sesso maschile, e non nei confronti dell’intera umanità secondo la perdurante universalizzazione sessita del linguaggio, riteniamo che la misantropia nel cinema sia un problema secondario e circoscritto. Quanto al confine fra i due territori, è sempre quello della misoginia che viene invaso e sul quale si fanno i picnic.
Intervista di Selene Oliva