“La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai”. È una citazione del film Torneranno i Prati di Ermanno Olmi. Ci avviamo alla fine del 2017 e l’umanità vive in preda alla paura, di attentati terroristici, di nuovi conflitti nucleari. Sempre in guerra, di fatto, anche se siamo circondati da luci e colori, da mezzi di comunicazione che mescolano simboli e messaggi, incessanti, svuotati di significato. Ecco allora che, a trent’anni dalla sua uscita, ripensiamo al Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, uno dei più bei film antimilitaristici di sempre, tratto dal romanzo Nato Per Uccidere di Gustav Hasford. Una pellicola che Kubrick girò a sua volta quasi trent’anni dopo Orizzonti Di Gloria, altro esempio di opera cinematografica che denuncia un male incurabile della nostra società: la malvagità dell’Uomo.
L’Uomo è (ancora e sempre) Malvagio
In Full Metal Jacket comprendiamo subito che Kubrick non ha per nulla cambiato le sue convinzioni e il suo pessimismo nei confronti della natura malvagia dell’Uomo. La guerra è sempre qualcosa di orrendo, un misto di stupidità e di bestiale cinismo per appagare ambizioni politiche, sete di potere ed enormi interessi economici. La guerra in Vietnam ha come sfondo una società in trasformazione. I grandi Valori – presenti al tempo della Prima Guerra Mondiale (in Orizzonti di Gloria) – sono stati spazzati via dalla “rivoluzione” del 1968 e da tutto quanto ne è seguito. Il vuoto che si è creato nella società, con l’aperta ed irreversibile crisi di ideologie, di religioni e di forti riferimenti, aveva indotto a rendere più pesante l’addestramento e il condizionamento dei soldati destinati a combattere nel Vietnam. Un vero e proprio lavaggio del cervello, un annichilimento della personalità, un’operazione condotta con criteri di scientifica efficacia per creare vere macchine da guerra viventi, uomini pronti ad obbedire ad ogni ordine, senza alcuna remora etica e senza dubbi.
La violenza fisica e morale su questi ragazzi è talmente forte ed incisiva che per il soldato Palla di Lardo la pressione risulta insostenibile. Da violenza non può che nascere violenza: la mente del ragazzo è piegata, il corpo ben addestrato e il successo del training sembra conseguito: in realtà il corto circuito causato nel cervello del giovane non tarda a manifestarsi. La violenza della crisi finale non può che essere pari agli insegnamenti impartiti: morte per il perfido istruttore e suicidio del giovane. Tutto con quel fucile che i ragazzi dovevano addirittura portare a dormire con loro.
Uccidersi come forma di libertà
È però troppo riduttivo dire che quel giovane era impazzito e che la sua mente era stata spezzata dall’eccessivo carico psico-fisico. Ci sembra più corretto dire che il giovane, consapevole di ciò che era diventato (il corso era ormai finito), non voleva più essere quel marine spietato e pronto alle azioni di guerra più spregiudicate che lo attendevano: inizialmente aveva pensato di voler essere un soldato “normale” secondo stereotipi ormai superati. Il risultato che aveva raggiunto era per lui inaccettabile, non voleva essere un killer e si rendeva conto che ormai non vi era più alcuna strada di ritorno. Il danno arrecato era ormai irreversibile e non era più possibile annullare gli effetti di tutti i condizionamenti ricevuti. Palla di Lardo non aveva altra scelta che uccidere l’assassino che ormai era in lui (e che non accettava di dover essere) ed allo stesso tempo, dando spazio per una sola volta alla belva sanguinaria che era diventato, decide di uccidere prima l’ispettore. Certamente per vendetta e per punirlo per quello che gli aveva fatto, ma anche per evitare che continuasse a farlo anche agli altri ingenui ragazzi come lui. L’arido cinismo degli istruttori, il voluto sadismo con il quale le reclute sono trattate, i carichi di lavoro dell’addestramento sono di abbrutente pesantezza, li forgia sul piano fisico, ma li segna indelebilmente sotto il profilo caratteriale.
Joker, l’ambiguità dell’Uomo
L’unico che sembra avere la forza di resistere e di mantenere una propria personalità, di saper anche fronteggiare il terribile istruttore (che finirà poi ucciso) è Joker che, nelle sue aspirazioni per una vita normale (al di là ed al di fuori della guerra) intende fare il giornalista. Nel panorama dei vari personaggi del film è inevitabile che lui appaia come il migliore: un eroe positivo che sembra forte abbastanza per resistere ai condizionamenti dell’addestramento, restando sé stesso. È lui che aiuta il compagno psichicamente più debole e fisicamente più in difficoltà (Palla di Lardo) ma è anche vero che lo fa perché obbligato dall’istruttore. L’atteggiamento di Joker verso Palla di Lardo è ambiguo, alternando momenti che appaiono generosi ad altri di insofferenza, se non di odio, come quando, come tutti quelli della camerata, lo colpisce, bloccato nella brandina. Tale episodio non così grave di per sé, appare però molto sgradevole perché Palla di Lardo non solo viene tenuto immobilizzato per non avere la possibilità di reagire, ma anche con un asciugamano sul viso in modo da non poter vedere e riconoscere chi dei compagni via via lo colpiva. In pratica tutti, vigliaccamente, lo percuotono con un colpo del proprio asciugamano e Joker, dopo qualche tentennamento, finisce con il partecipare al pestaggio, con gesto deliberatamente secco e violento, certamente liberatorio per tutta la rabbia e la fatica sopportata per essere stato buono e amichevole con lui.
Ipocrisia e vera natura
Joker è un ipocrita che sa fingere, la sua ironia è in realtà cinismo e nichilismo, privo di passione. La scuola dei marine è passata attraverso di lui senza in realtà incontrare nulla. Joker ha abbastanza intelligenza per comprendere come superare situazioni difficili, come gestire se stesso con lucido utilitarismo per non avere problemi. Joker vive senza l’impaccio di principi o di convinzioni etiche troppo forti da porlo in conflitto con se stesso. Egli, seppure non connotato in modo particolarmente negativo, non è portatore di alcun pulsione e positività, prodromo del giovane americano medio (indifferente a tutto e sostanzialmente amorale, nel senso letterale del termine) che dopo pochi anni seguirà alla generazione dei ragazzi mandati alla guerra del Vietnam. La vera natura della personalità di Joker si rivela in due episodi.
Simboli vuoti, Uomo vuoto
Il primo, quando non sa rispondere al Generale fornendo una spiegazione plausibile del perché sulla sua divisa vi era appuntato il distintivo con il simbolo della pace. In quel momento vorremmo (spereremmo) che Joker, così spregiudicato, risponda al suo superiore con qualcuna delle sue frasi taglienti, magari con una doppio senso che ponesse in ridicolo la logica semplicistica e la retorica roboante e stereotipata del Generale. Ma ciò non avviene e non certo per timidezza: Joker realmente non sa (o non sa più o non ha mai saputo) perché portava quel distintivo. Capiamo che Joker è come tutti gli altri, un uomo mediocre teso solo all’apparire, senza essere. Il distintivo era bello e a Joker dava l’idea di essere diverso, più intelligente, più progressista e più in gamba. Quel distintivo sulla divisa militare a Joker piaceva e tanto bastava. Kubrick al facile e ormai popolare atteggiamento antimilitarista, aggiunge una più ampia critica che non va tanto a colpire il pacifismo, quanto la superficialità degli uomini, più affascinanti dai simboli e dalle mode piuttosto che dalle idee. A riprova che la stupidità umana non ha confini e non conosce steccati o scelte di campo. Joker, emblema di questa sconfortante visione dell’Uomo, non ha difficoltà a mettere insieme simboli di forte e becero machismo (la frase “Born To Kill” sull’elmetto) con il rassicurante distintivo pacifista, a conferma di come, per lui, entrambi siano vuoti simulacri ai quali non si collegava alcuna ideologia ed alcuna passione civile o politica.
Pace o “Born To Kill”?
Il secondo episodio, nel quale Joker sembra sorprendere se stesso, è quando fra tutti è proprio lui ad uccidere a sangue freddo, la giovane vietnamita cecchino, già gravemente ferita. La situazione sembra equivoca, la nemica è stesa a terra, colpita nello scontro a fuoco, sanguinante, morente e sofferente ed invocante il colpo di grazia (per orgoglio, per provocazione, per disprezzo verso gli americani, per porre fine alle proprie eccessive sofferenze? Non si può comprendere con certezza): Joker, incitato dai compagni, le spara e la giustizia. Il suo gesto è una piccola rappresentazione davanti ai commilitoni, nella quale la vita della giovane nemica non il plauso di quelli. Joker è il solito vigliacco che colpisce Palla di Lardo quando questo non lo vede e non può reagire e che spara, maramaldeggiando, ad una persona a terra, già ferita. Se la prima volta sembrerebbe che si fosse vergognato del suo gesto, nella seconda lo vediamo compiaciuto, avendo superato, positivamente, una prova che sembrava difficile. La scelta di campo è fatta, tra “Born to Kill” e il simbolo pacifista vince il primo, il più facile in quel momento, quello maggiormente gratificante e peraltro rispondente ai peggiori istinti che il corso di addestramento così bene aveva esaltato e coltivato.
Il cinismo dell’Uomo e della Società
L’estremo cinismo del gruppo di soldati dopo l’eroica azione che portato alla morte la giovane vietnamita (sola contro tutti loro) è ben rappresentato dall’incredibile loro coro conclusivo tratto dai cartoni animati di Walt Disney: Michey Mouse, ovvero Topolino. Ben si può comprendere il loro sollievo di essere ancora vivi dopo lo scontro a fuoco, ma a noi sembra eccessivo che il dramma della guerra, della morte non solo del nemico, ma anche dei loro stessi compagni (amici?), orribilmente dilaniati dalle pallottole del cecchino e dissanguati in lenta terribile agonia, possa essere così rapidamente rimossa, con tanta indifferenza. Mors tua vita mea. Nel gruppo dei soldati non manca il super guerriero, molto aggressivo e bellicoso, per il quale il coraggio sconfina e si confonde con la più stupida incoscienza. Parodia grottesca e dissacrante di eroe trasformato in una figura eccessiva e sostanzialmente ridicola. Di tutti loro del gruppo si può dire che si possano scorgere non solo gli effetti del loro duro addestramento/condizionamento fisico/mentale al quale erano stati sottoposti, ma anche quelli, ben più forti e radicati che provenivano dalla società nella quale erano cresciuti.
Il pensiero di Kubrick
In Full Metal Jacket – dove i diversi cameralook dei personaggi parlano direttamente allo spettatore per colpirlo – le interviste di Joker sono una facile scorciatoia per esprimere allo spettatore il pensiero di Kubrick stesso. Un fenomeno complesso come la Guerra del Vietnam può dare spazio ad una miriade di commenti, considerazioni e giudizi. Kubrick ci fa comprendere come le “cose” possono essere viste in modo diverso in funzione del diverso punto di vista nel quel ci si pone. Certo è diverso giudicare da “dentro” quale soldato chiamato a combattere e a rischiare la vita, o da “fuori”, lontano, da chi è al sicuro e può fare analisi in tutta tranquillità. Sono tutti frammenti di verità per chi si esprime. Sono spunti di meditazione che ci suggeriscono cautela e ci ammoniscono di non cadere preda di facili semplificazioni o di mistificazioni. Senza peraltro dimenticare il nucleo fondamentale di ciò che significa una guerra, con tutto il suo carico di orrori, di eclissi della ragione, di ottusità, di deliberato e programmato cinismo, con liberazione dei più bassi istinti dell’Uomo, esaltati anzi come virtù e valore.
Folco Twice
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