Alla Berlinale, dove è stato presentato in Concorso, ha già lasciato il segno Fuocoammare, il nuovo film documentario del Leone d’Oro Gianfranco Rosi. Un’opera coraggiosa – al cinema da giovedì 18 febbraio – che documenta e racconta in modo inedito Lampedusa e le tragedie umane dei migranti – “un nuovo Olocausto” – usando le parole dello stesso Rosi.
Samuele ha 12 anni e vive su un’isola di pochi abitanti lontano dalla terraferma. Come tutti i bambini della sua età gioca e va a scuola. Tira con la fionda, costruita con meticolosità, su barattoli e fichi d’India. Ha un amico al quale insegna come andare a caccia e un compagno di scuola che gli insegna a remare tra i natanti del porto vecchio. A Samuele, però, piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla di mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere proprio la sua piccola isola di sassi e rovi.
Ma la sua non è un’isola come le altre. Si chiama Lampedusa ed è il confine più simbolico d’Europa, il luogo dove si è concentrato negli ultimi venti anni il destino di centinaia di migliaia di migranti in fuga da guerra e fame per assicurarsi un pezzo di libertà. Samuele e i lampedusani sono i testimoni a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi.
Gianfranco Rosi era andato a Lampedusa nell’autunno del 2014 per realizzare, su commissione, un corto di dieci minuti, un instant movie “che portasse in un’Europa pigra e complice, che negli anni ha ricevuto un’eco distorta e confusa della realtà del fenomeno migratorio, un’immagine diversa di Lampedusa”. Lo stesso Rosi del resto per molto tempo vedeva Lampedusa attraverso “voci e immagini legate ai telegiornali, alla morte, all’emergenza, all’invasione, alla ribellione dei populisti”. Ma una volta giunto sull’isola, il caso ha voluto che incontrasse il Dottor Pietro Bartolo, il direttore sanitario dell’Asl locale che da trent’anni cura i lampedusani e da quasi altrettanti “assiste a ogni singolo sbarco, stabilendo chi va in ospedale, chi va nel Centro di Accoglienza e chi è deceduto”.
Un incontro decisivo per trasformare il corto in un film-documentario: “è scattata una complicità, ho visto in lui quella persona che poteva trasformarsi in un personaggio del film”. Il Dottor Bartolo, condividendo la sua missione sanitaria e umanitaria, ha infatti deciso di accendere il suo computer per mostrare a Rosi immagini inedite e fargli “toccare con mano il senso della tragedia dei migranti”.
Una volta deciso di girare il film, il regista si è trasferito sull’isola, in una casetta nel porto vecchio: “volevo raccontare questa tragedia attraverso gli occhi degli isolani, protagonisti di una mutazione profonda, perché tutto quello che è successo a Lampedusa nel corso degli ultimi 20 anni ha cambiato il loro modo di vedere e sentire le cose”. Rosi è così gradualmente entrato in contatto con i lampedusani, “facendo esperienza dei loro ritmi, del loro quotidiano, del loro modo di vedere le cose”.
Oltre a Pietro Bartolo c’è stato un altro incontro fondamentale: quello con Samuele Pucillo, un bambino di 12 anni, figlio di pescatori: “mi ha conquistato ed ho capito che attraverso il suo sguardo, ingenuo e puro, avrei potuto raccontare l’isola e i suoi abitanti con maggior libertà”. Osservandolo nei suoi giochi, con i suoi amici, a scuola, a casa con la nonna, sulla barca con lo zio, Samuele gli ha permesso di “osservare l’isola in modo diverso e inedito”. Altri personaggi si sono poi aggiunti naturalmente grazie a un avvicinamento graduale.
Gianfranco Rosi ha vissuto per più di un anno il lungo inverno dell’isola e i tempi del mare: “questo tempo mi ha permesso anche di cogliere il reale andamento dei flussi migratori, era necessario superare la tendenza tipica dei media di andare a Lampedusa solo in occasione di una emergenza”. E a Lampedusa l’emergenza c’è, ogni giorno: “non si può cogliere il senso di quella tragedia senza un contatto non solo ravvicinato, ma anche continuativo: solo così, tra l’altro, avrei potuto comprendere meglio il sentimento dei lampedusani che da vent’anni assistono al ripetersi di questa tragedia”.
Dopo l’avvento delle missioni come Mare Nostrum, attraverso le quali si è cercato di intercettare le imbarcazioni in alto mare, secondo il regista “i migranti a Lampedusa non si percepiscono, sono come fantasmi di passaggio”. Sbarcano in un molo laterale del porto vecchio e vengono portati con un autobus nel Centro di Accoglienza dove vengono assistiti e identificati per poi ripartire qualche giorno dopo verso il continente. Rosi ha raccontato la vita del Centro di Accoglienza: “ho filmato i suoi ritmi, le sue regole, i suoi ospiti, i suoi costumi, le sue religioni, le sue tragedie: un mondo nel mondo, nettamente separato dal quotidiano dell’isola e la cosa più difficile è stata trovare il modo di filmare questo universo cercando di restituire il senso di verità e di realtà, ma anche di umanità”.
Ma se una volta la linea di frontiera era la stessa Lampedusa (le imbarcazioni arrivavano direttamente sull’isola), oggi quella linea si è spostata in mezzo al mare. Per questo Rosi ha deciso di chiedere il permesso di imbarcarsi sulla Cigala Fulgosi, una nave della Marina Italiana, operativa innanzi alle coste africane: “vi sono rimasto circa un mese e ho partecipato a due missioni – racconta – ho condiviso anche lì altri tempi, ritmi, regole e costumi fino a quando abbiamo incontrato la tragedia, una dopo l’altra: l’esperienza di filmarla non è qui descrivibile”.
Prima di chiudere il film, il regista è poi tornato dal Dottor Bartolo per filmare la sua testimonianza, sempre davanti al monitor del suo computer, dove è raccolto l’intero archivio di vent’anni di soccorsi: “è riuscito a trasmette con le sue parole, la sua umanità, la sua immensa serenità il senso della tragedia e il dovere del soccorso e dell’accoglienza”.
L’invito a partecipare alla Berlinale è arrivato mentre Rosi stava ancora girando a Lampedusa, dove è stato trasferito il montaggio per garantire il continuo scambio tra realtà e narrazione documentaristica. “È sempre difficile staccarmi dai personaggi e dai luoghi delle riprese, ma questa volta lo è ancora di più. Più che in altri miei progetti, ho sentito però la necessità di restituire al più presto questa esperienza per metterla in dialogo con il presente e le sue domande. Sono particolarmente contento di aver portato a Berlino, nel centro dell’Europa, il racconto di Lampedusa, dei suoi abitanti e dei suoi migranti, proprio ora che la cronaca impone nuovi ragionamenti”.
“Una volta arrivato a Lampedusa ho scoperto una realtà molto lontana dalla narrazione mediatica e politica. Era necessaria un’immersione prolungata e approfondita”.
Gianfranco Rosi