Oggi, per festeggiare il 70° compleanno di Gérard Depardieu, vogliamo celebrare un film che lo ha visto protagonista – al fianco di un grandissimo Roberto De Niro – diretto da un Maestro che ci ha da poco lasciato, Bernardo Bertolucci. Ovviamente stiamo parlando di Novecento, il film in due atti, che uscì nel 1976. Uno dei diversi capolavori di Bertolucci che lo scorso aprile era tornato nelle sale italiane in versione restaurata.
Emilia, 25 aprile 1945. Nelle campagne parmensi i partigiani catturano gli ultimi fascisti; un ragazzo tiene sotto tiro il ricco proprietario terriero Alfredo Berlinghieri (Robert De Niro). Con un salto temporale l’azione si sposta al 1900, anno di nascita di Alfredo, futuro erede dei possedimenti del padre, e di Olmo Dalcò (Gérard Depardieu), figlio di una contadina che lavora presso la famiglia Berlinghieri. I due, crescendo, stringono un legame d’amicizia molto forte a dispetto della diversa estrazione sociale e degli eventi storici che tendono ad allontanarli: prima il servizio di leva che li assegna a reparti diversi durante la Grande Guerra, poi l’avvento del regime fascista che privilegia i latifondisti scatenando la ribellione contadina.
Negli anni Venti, Olmo e Alfredo incontrano quelle che diventeranno le rispettive mogli: Anita (Stefania Sandrelli), fervente socialista conosciuta dal primo in una Casa del Popolo, e Ada (Dominique Sanda), che il secondo incontra durante una visita allo zio Ottavio. Gli anni Trenta sembrano separare definitivamente i due protagonisti, ma la loro profonda amicizia è destinata a sopravvivere.
Vi proponiamo ora le dichiarazioni dello stesso Bernardo Bertolucci (dall’intervista di Alberto Arbasino, ora in Bernardo Bertolucci. Cinema la Prima Volta, a cura di Tiziana Lo Porto, Minimum Fax, 2016)
“Ecco una delle idee di base di Novecento: film sulla cultura popolare, secondo Gramsci, e nel senso di Pasolini. E una chiave precisa: l’identificazione delle masse non tanto con i personaggi di finzioni narrative, ma con questi che si scollano dal loro ruolo letterario per diventar personaggi della Storia. Dunque, anche un’accettazione dei luoghi tipici della narratività, addirittura ottocentesca: sia in senso nazionalpopolare, sia criticamente, come rivisitazione neoretorica. Insomma, una formula è una formula: la differenza è che nelle sedi ottocentesche originarie gli archetipi narrativi erano spesso condannati a soluzioni di tipo psicologico. In Novecento, ci si ritrova nel mondo delle idee: cioè si fanno i conti con l’ideologia. E proprio utilizzando formule che sono sempre state adoperate per fini psicologici”.
“Com’è fatto? C’è una divisione segreta in quattro stagioni. La grande estate dell’infanzia e dell’adolescenza ai primi del secolo, coi primi rapporti tra il figlio del contadino e il figlio del padrone, in un’aura ancora ottocentesca, poetica, lirica. Molta campagna. Molta Emilia. Molto Verdi. Verdi che aveva sempre dei punti di riferimento nella campagna intorno alla sua casa. Comincia con uno che corre attraverso i campi gridando appunto: “È morto Verdi!”. Sono i funerali dell’Ottocento, i personaggi del dopo-Verdi si vedono già come dei sopravvissuti… Poi l’autunno che precede il fascismo; e il lungo inverno fascista durato vent’anni: soprattutto psicologico, perché il fascismo pretende psicologia. Finalmente, il 25 aprile, la primavera, quando si materializza l’utopia contadina, i contadini della Bassa padana credono d’aver fatto la rivoluzione, e forse l’hanno fatta davvero, anche se finiranno per lasciarsi convincere a restituire le armi”.
“Allora, non tanto una liberazione dal nazifascismo: piuttosto, uno sbocco della lotta di classe, con un processo di tipo involontariamente “cinese” al padrone, da parte di un mondo popolare emiliano dove il marxismo sarà arrivato chissà in quali forme, innestandosi su una tradizione che non butta via niente della propria identità contadina. Dunque, descrivere fino in fondo la giornata di un contadino parrà limitativo solo se si parte da un punto di vista limitato, e non già da un interrogativo serio: parlare della Bassa padana a fondo. E da una verifica: se parlando di un microcosmo, si può alludere a tutto ciò che sta intorno. Di qui la domanda decisiva: sarò riuscito a fare un film davvero popolare che somigli a tutto ciò che somiglia a me?”.
“Nella prima parte, credevo inevitabile “dover” guardare il passato attraverso filtri nostalgici, proustiani… E invece, poco da fare: è venuta fuori subito, con un brivido, questa dialettica fra contadini e padroni. Cioè, ancora, il mondo delle idee. E dopo, si può amare Proust ancora di più. Per questo film ho avuto un massimo di libertà, mai avuta, mai sognata, e un minimo d’impedimenti o controlli. In contrario del solito: una combinazione produttiva imponente, però una libertà di improvvisazione direttamente proporzionale all’enorme costo del film. Cioè, un caso unico, che poi forse conferma quell’altra regola. Ma per me, il cinema è molto improvvisazione. Sceneggiatura molto costruita, molto programmata. Ma poi, secondo Renoir: “Sempre lasciare aperta una porta sul set, qualcosa o qualcuno potrebbe entrare…”. E infatti non ci vuol niente a cambiare quella sceneggiatura così minuziosa: basta sentire una frase ‘sbagliata’ in un contesto ‘sbagliato’”.
“Mai preparato un’inquadratura prima. Mi manca ogni terminologia tecnica, non sono capace di fare una fotografia, mi faccio capire con analogie verbali e visuali. Entro in un ambiente ancora senza idee. Ma lì, a contatto con le facce, i muri, gli oggetti, preparo al millimetro inquadrature complicatissime, con molti movimenti, come se la macchina da presa fosse una penna che scrive nell’aria. Anche se poi novanta persone dietro la macchina – perché il cinema è un fatto davvero collettivo – pesano con le loro emozioni e le loro energie sulla pellicola che è molto più “sensibile” di quanto s’immagini”.