Uscirà oggi nelle sale italiane, distribuito da Parthénos, il film Viviane di Ronit e Shlomi Elkabetz, il titolo appena scelto da Israele per la corsa all’Oscar come Miglior Film Straniero. Applaudito all’ultimo Festival di Cannes (dov’è stato uno dei film più apprezzati della Quinzaine des Réalisateurs) e di Toronto (Contemporary World Cinema), questo film chiude una trilogia iniziata nel 2004 con To Take a Wife (premiato alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia) e proseguita nel 2008 con 7 Days.
Protagonista del film è Viviane Amsalem (interpretata da Ronit Elkabetz, anche regista e sceneggiatrice insieme al fratello Shlomi), una donna che da tre anni cerca invano di ottenere il divorzio dal marito Elisha, davanti all’unica autorità che in Israele possa concederglielo: il tribunale rabbinico. L’ostinata determinazione di Viviane nel voler conquistare la propria libertà si scontra con l’intransigenza di Elisha e con il ruolo ambiguo dei giudici. In tribunale sfilano i testimoni convocati dalle parti, mentre il “processo” si trascina coi suoi contorni al tempo stesso drammatici e assurdi.
Vi proponiamo di seguito un estratto dell’intervista a Ronit e Shlomi Elkabetz realizzata da Jean-Luc Douin.
Il titolo originale del film fa riferimento a un processo. Di quale conflitto si tratta? È qualcosa legato all’appartenenza ad una particolare comunità?
Esasperata dalla sua vita matrimoniale, Viviane ha abbandonato da diversi anni il domicilio coniugale e vuole avere il divorzio nel rispetto delle regole per non essere messa al bando dalla società. In Israele, ancora oggi non esiste il matrimonio civile e vige soltanto la legge religiosa che sancisce che solo il marito può concedere la separazione. È qualcosa che va a prescindere dalla comunità di appartenenza dei coniugi e dal fatto che siano religiosi o completamente laici. Quando una donna pronuncia il “sì” sotto il baldacchino nuziale, viene subito considerata come potenzialmente “privata del gett”, del diritto di divorziare, poiché solo il marito ha la facoltà di scegliere. La legge attribuisce un potere esorbitante al coniuge. I rabbini sostengono di fare tutto il possibile per aiutare le donne, ma di fatto, nel corso delle udienze a porte chiuse dei procedimenti giudiziari, la realtà è ben diversa, poiché è sacro dovere dei rabbini fare di tutto per preservare un nucleo familiare ebraico e sono dunque reticenti a privilegiare il desiderio del singolo di sciogliere il matrimonio rispetto al dovere religioso.
In che periodo storico si svolge il film?
Ai giorni nostri. Poiché questa legge non è mai stata emendata, il punto non è sapere “quando”, ma “quanto tempo” durerà la procedura. Il tempo prezioso che perdono le donne che rivendicano il proprio diritto al divorzio non ha la minima importanza agli occhi dei mariti, dei rabbini e della legge. Questo tempo perduto ha valore solo per la donna che supplica di poter tornare a vivere. Poiché fino a quando non si separa formalmente, una donna che vive al di fuori del domicilio coniugale non potrà mai ricostruirsi una famiglia e i figli che dovesse avere fuori dal matrimonio avrebbero lo statuto di “mamzer” (che equivale a quello di bastardo, senza alcuna protezione o riconoscimento giuridico). Inoltre, questa legge le preclude ogni tipo di vita sociale, perché verrebbe sospettata di avere una relazione con un uomo e questo le impedirebbe per sempre di ottenere l’atto di divorzio se il marito dovesse persistere nel suo rifiuto. Una donna in attesa di divorzio è condannata a vivere in una sorta di prigione.
Come avete affrontato il genere cinematografico del film-processo? Quali sono i vostri principi quando filmate?
Per noi mettere in scena un processo significava innanzitutto sapere come un uomo e una donna vengono definiti rispetto alla legge, di fronte a una corte e in relazione uno con l’altra. Quindi si è subito imposta una decisione piuttosto estrema: non filmare mai dal punto di vista di un regista che osserva, ma esclusivamente da quello dei protagonisti. La macchina da presa è sempre posizionata dall’angolazione di uno dei personaggi mentre osserva un altro personaggio. Un personaggio che non viene guardato da un personaggio non è visibile. Noi registi raccontiamo la nostra storia non imponendo un punto di vista univoco sulla vicenda, ma attraverso il prisma sfaccettato delle persone presentate nello spazio di fronte a noi. Un punto di vista soggettivo in un luogo che si presume oggettivo.
Dunque, è un film sulla parola: buona o cattiva fede, stratagemmi, deposizioni, arringhe… A ciascuno la sua verità?
A ciascuno la sua verità in effetti. Ma giochiamo anche con i diversi livelli linguistici: la lingua profana in antitesi alla lingua sacra. La commedia in antitesi alla tragedia. Nell’aula di tribunale, il livello alto dell’eloquio formale crea una nota stonata quando viene utilizzato per evocare dei fatti quotidiani davanti alla corte. Una sensazione di stranezza che rasenta il disprezzo per i membri della comunità chiamati a testimoniare. Peraltro, abbiamo utilizzato questa distorsione anche nell’interpretazione degli attori: il registro linguistico sostenuto in tribunale li costringe a una gestualità particolare dietro la quale possono rifugiarsi. Durante la fase della scrittura e della creazione dei personaggi siamo stati anche molto guidati dal desiderio di suscitare compassione. Malgrado l’inflessibile rigore di questa legge, applicata da rabbini che possono sembrare disumani, abbiamo voluto mostrare i momenti in cui questi cedono a un po’ di umanità, in cui possiamo scorgere il loro smarrimento, consapevoli che questo caso potrebbe un giorno riguardare anche loro, le loro mogli, le loro figlie, le loro vicine, le loro zie…
Lei, Ronit, come vede il suo personaggio?
La missione dei rabbini è di salvare tutti i nuclei famigliari ebrei, è il precetto della “shalom beit”, della “pace domestica”. Dunque il desiderio di divorziare di questa donna costituisce una minaccia contro l’ordine stabilito, ma lei stessa rappresenta per loro un pericolo a titolo personale, poiché non vogliono rendersi complici dello scioglimento di un matrimonio. In quanto donna la sua parola conta meno di quella di un uomo. Non ha alcun peso. È costretta al silenzio dal potere della legge e di coloro che la applicano, ossia i rabbini. Eppure, Viviane impara a servirsi del silenzio per portare avanti ad ogni costo la procedura che tutti vorrebbero interrompere. Anche se le viene imposto, questo silenzio è anche lo specchio della sua forza interiore. Il leitmotiv che ha ispirato il personaggio di Viviane, è la sua determinazione, la sua serenità mentale, il suo silenzio, il silenzio di una persona che si è preparata con serietà e che ha riflettuto a lungo prima di buttarsi in quella fossa dei leoni. È anche una donna capace di impetuosi accessi, ma sa che la minima esplosione da parte sua rischia di indebolire la sua posizione davanti all’uomo. Se non fosse più capace di contenersi, verrebbe subito espulsa dal processo e sarebbe definitivamente screditata. Non si batte ad armi pari con il marito Elisha che ha la legge dalla sua parte. Anzi, ancora peggio: ha il potere e si comporta di conseguenza, fiducioso. Tuttavia, la sua situazione è più complessa di una semplice condizione di rapporto di forza: desidera sinceramente continuare a stare con Viviane. Ed è anche questo che aggrava la posizione di Viviane: malgrado sia una donna problematica, in particolare perché contravviene al sacro comandamento di preservare un “focolare ebraico”, suo marito continua a volerla salvare da se stessa e concederle l’onore di essere sua moglie. Grazie a questa sua volontà, Elisha intenerisce ancora di più i rabbini.
Uno dei punti di forza dell’interpretazione di Ronit e di Simon Abkarian è nei loro sguardi e nella loro mimica. Siamo quasi nel cinema muto o nel cinema hollywoodiano di una volta, nei film di Carl Theodor Dreyer, di Robert Bresson… Scrutiamo anche i volti dei rabbini…
Sono riferimenti che contano molto per noi, in particolare quello ai film classici in cui la tensione poggia su un elemento semplice. Qui, per esempio, Viviane vuole la libertà e questa le viene negata. Inoltre, si aggiunge una complicazione: il convenuto al processo è anche colui che ha il potere di determinarne il verdetto. Un dispositivo affascinante. A parer nostro, la forza del cinema risiede nello sguardo. In un’inquadratura, la prima cosa che attira il nostro sguardo sono gli occhi di un attore o di un’attrice. Poi cerchiamo quello che quell’attore sta guardando e dissezioniamo la sua anima attraverso il suo sguardo. Grazie agli sguardi, un film esiste al di là dei dialoghi. E sono questi sguardi a creare anche il movimento. Una delle metafore che abbiamo avuto in mente all’inizio del nostro lavoro era che il processo si svolgesse come una partita di tennis. La testa dello spettatore doveva girare da destra a sinistra, seguire lo scambio delle palline, assistere a un set vincente e a un set perso, fino alla vittoria finale. Dunque non ci restava altro da fare in un simile processo che condurre una guerra di sguardi. Gli sguardi di Elisha non sono privi di sofferenza, ma lasciano anche trasparire calma, fiducia in se stesso e inflessibilità. Contrariamente a Viviane che nel suo sguardo esprime un universo più complesso. I suoi occhi tradiscono al tempo stesso dolore, paura, disperazione, volontà, ostinazione, allerta e tante cose che vorrebbe esprimere e altre che preferisce tacere.
La forza del film deriva in parte dall’alternanza dei registri. Perché avete voluto accostare il dramma, la commedia, la rivolta, la farsa?
L’essenza stessa di questa storia è tragica. Il suo svolgimento è assurdo e a volte ridicolo. Il lato comico scaturisce da questo contrasto. L’esistenza di questa legge è assurda: una legge religiosa che viene imposta a tutti, credenti e laici. Persino noi stentiamo a credere che nel 2014, nella nostra società apparentemente democratica, una donna possa essere considerata proprietà del marito. Inoltre, c’è qualcosa di assurdo nell’ostinazione dei giudici rabbinici a prendere tempo, a rimandare i dibattimenti, a far perdere la bussola alla querelante affinché rinunci alla sua volontà, “salvando” in questo modo ancora una volta un altro nucleo famigliare ebraico dalla “catastrofe”. Dalla signora Evelyne Ben Chouchan a Rachel, passando per la coppia dei vicini, anch’essa edificante in quanto a rapporti tra uomo e donna, la scelta dei testimoni è un ritratto dei costumi sociali. E peraltro la corte sembra godersi lo spettacolo di questi personaggi… Esistono alcuni presupposti giuridici che permetterebbero ai giudici di condannare un marito a concedere il divorzio, in particolare se il marito non ha provveduto ai bisogni alimentari, vestiari e sessuali della moglie. È in quest’ottica che i giudici hanno convocato i membri della comunità e del vicinato della coppia. Ma, benché chiamati solo a deporre, non sanno trattenersi dal cogliere questa opportunità per parlare di se stessi. Il fratello di Viviane, sua moglie, una donna nubile di cinquant’anni, un amico della sinagoga, dei vicini di casa: questa galleria di personaggi realistici porta con sé l’aria dell’ambiente esterno, delle periferie, della città, delle tradizioni, della sinagoga. Ma sarà in grado di fornire ai giudici una valida motivazione giuridica per condannare Elisha a concedere il divorzio alla moglie?
Dunque ritraete più la società israeliana che la vostra famiglia?
Sì, il film non è soltanto la storia di Viviane, è anche una metafora della condizione delle donne in generale che si considerano “imprigionate a vita” dalla legge. In questo senso, il film rappresenta la condizione delle donne in tutto il mondo, in tutti i luoghi in cui, per il fatto stesso di essere donne, sono considerate inferiori agli uomini dalla legge e dagli uomini stessi.