Dopo essere stato presentatoFuori Concorso al 70° Festival di Locarno, il 19 ottobre arriva al cinema Ibi, il film documentario diretto da Andrea Segre che racconta, attraverso le sue immagini, un pezzo di vita di una donna coraggiosa che non c’è più, Ibitocho Sehounbiatou.
Ibi ha fotografato e filmato la sua vita in Italia per 10 anni. Questo film nasce dalle sue immagini, dalla sua creatività, dalla sua energia. Per la prima volta in Europa un film interamente basato sull’auto-narrazione diretta e spontanea di una donna migrante, che racconta sé stessa e la sua Europa ai figli rimasti in Africa. Un viaggio intenso e intimo nel mondo difficile, vivo e colorato di un’artista visiva ancora sconosciuta.
Ibi è nata in Benin nel 1960, ha avuto tre figli e nel 2000 in seguito a seri problemi economici ha scelto di prendere un grande rischio per cercare di dare loro un futuro migliore. Li ha lasciati con sua madre e ha accettato di trasportare della droga dalla Nigeria all’Italia. Ma non ce l’ha fatta. 3 anni di carcere, a Napoli. Una volta uscita Ibi rimane in Italia senza poter vedere i figli e la madre per oltre 15 anni. Così per far capire loro la sua nuova vita decide di iniziare a filmarsi. Racconta se stessa, la sua casa a Castel Volturno dove vive con un nuovo compagno, Salami, e l’Italia dove cerca di riavere dignità e speranza. Un destino tragico però la porterà via per sempre.
Questo non è un film sulla storia di Ibi che avete appena letto, ma è un film di Ibi. Un film che lascia parlare le immagini, lo sguardo, le parole, l’anima di Ibi. Quello che emerge non è solo la drammaticità e la dignità della sua storia, che Ibi racconta e spiega in lunghe video-lettere ai figli e alla madre, ma anche la sua ricerca estetica ed etica. Ibi non vuole solo testimoniare con la macchina fotografica, ma vuole prendere posizione. La videocamera come strumento quasi religioso, nel senso durkheimiano del termine, ma anche la videocamera come strumento di azione sociale e politica, di costruzione della sua posizione e partecipazione alla vita civile del Paese, dove la sua vita è congelata. La videocamera come speranza.
Ore e ore di immagini sul movimento in cui non è solo importante ciò che Ibi filma, ma il fatto che sia lei a filmare. E lo si sente, lo si capisce, lo si percepisce, perché Ibi non si nasconde in uno sguardo neutro di documentazione oggettiva, ma si mette in gioco con la sua voce, i suoi movimenti, la sua presenza. Ibi ha prodotto la rottura essenziale del nostro sguardo post-coloniale consegnandoci il disorientamento di non poter osservare l’altro, ma di essere “costretti” a essere insieme all’altro. E lo ha fatto entrando nel tessuto civile e politico della nostra società, entrandoci come soggetto attivo e come io narrante, anzi quasi pre-narrante, in una sorta di istintiva inconsapevolezza che è azione comunicativa senza pensarsi come tale. Ibi filma perché vuole, perché ne ha necessità, perché non vuole stare zitta. Non filma per noi, non filma per farci capire. Per questo con Ibi possiamo capire di più.
Il film di Ibi è solo suo e come tale diventa di tutte le donne che vivono quest’epoca di viaggiatori illegali e famiglie spezzate, di diritti negati e sofferenze nascoste, di società che cambiano e che non sanno dove stanno andando. Infine o forse prima di tutto, questo film è una storia d’amore. L’amore vero, intenso e difficile di Salami e Ibi, celebrato da Salami alla fine del film con una profonda preghiera cantata in memoria della donna con cui ha condiviso la fatica e la scommessa della migrazione.
“Ibi non c’è più, ma il mondo con cui Ibi ha dovuto lottare e voluto vivere, con cui Ibi ha dovuto scontrarsi e voluto incontrarsi, quel mondo c’è ancora e deve avere il coraggio di fermarsi a capire ciò che Ibi ha saputo insegnare”.
Andrea Segre