La Terra non è più un posto sicuro. Si è diffuso un virus molto potente che ha colpito la razza umana. Una Madre cerca di salvare la propria famiglia e soprattutto il proprio figlio, appena nato, all’interno di una “tenuta” dove, con l’aiuto di pochi e fidati servitori, avvia un progetto di vita in totale autonomia dal resto del mondo. Il Padre non è d’accordo su questa visione: anche se il pericolo è alle porte, come potrà crescere il figlio? Con quali valori e con quali esperienze? Dopo una discussione con la Moglie, tenta la fuga dalla “tenuta” con il figlio, ma un incidente imprevisto gli toglie la vita e si salva il solo bambino, riportato alle cure della Madre. Questa è la scena iniziale di The Nest (Il Nido), l’esordio alla regia di Roberto De Feo che nel 2019, pochi mesi prima che la realtà dei nostri giorni proponga fin troppi richiami alla finzione cinematografica, dirige questo horror/thriller, ambientato in un magnifico castello in semistato di abbandono alle porte di Torino.
Il film
I personaggi principali sono intepretati da Francesca Cavallin (Elena, la Madre), Justin Korovkin (Samuel, il Figlio) e Ginevra Francesconi (Denise). Dopo l’incidente, un salto temporale di 10 anni, il film riprende nella Villa dei Laghi, il nido prescelto da Elena per crescere e proteggere Samuel, rimasto paralizzato su una carrozzina a seguito dell’incidente in auto con il Padre, o almeno così gli viene fatto credere. Elena è una Madre severa, fredda, impostata, segue personalmente l’istruzione del Figlio, propinandogli lezioni giornaliere strettamente finalizzate ad imparare quello che sarà il suo compito all’interno della Tenuta, secondo un progetto che implementarà negli anni, grazie all’opera dei braccianti assunti, la produzione di viveri per il sostentamento della Famiglia, o meglio, della ristretta comunità scelta da Elena per far fronte alle esigenze quotidiane sue e del bambino: due domestiche, un medico, un giardiniere tuttofare, un paio di parenti (gli zii del bambino) dei veri e propri schiavi, investiti nel ruolo di sentinelle ai cancelli della proprietà, per evitare a chiunque di entrare e di uscire.
Presto si comprende sino a che punto di patologica perversione si spinga la mente della giovane Madre: al suo compleanno, a Samuel viene regalato dai parenti un antico e pregiato volume. Il bambino, estremamente timido e timoroso, accetta il regalo con educazione e, guardando una delle immagini del libro, afferma a quanto desidererebbe partecipare ad un concerto d’opera classica suonata dal vivo. La zia si lascia sfuggire un fievole ricordo di gioventù, quando tante cose erano ancora possibili, anche andare a sentire suonare l’Opera. Tale improvvido errore della anziana signora non passa inosservato a Elena e al Medico. Da lì a poco, a notte fonda, si svolgerà, secondo un rituale simile a quelli delle streghe (Suspiria), l’uccisione della signora ad opera del medico, legata in mezzo al prato su un tavolo di legno alla presenza di tutti gli abitanti della tenuta. Samuel non deve avere contatti con l’esterno, non deve sapere “cosa c’è fuori”, non deve parlare o frequentare alcun altro bambino, non deve fantasticare su cose lette solo nei libri. La gabbia di Samuel non è solo la reclusione nella Tenuta, ma è anche il suo handicap, che lo limita nei movimenti e lo costringe a ripetute visite mediche di fisioterapia durante le quali gli vengono somministrate anche strane iniezioni nella colonna vertebrale.
Gli equilibri si sfaldano quando nella Villa fanno ingresso Ettore e Denise, una giovane ragazza, di pochi anni più grande di Samuel. Ettore è anziano e il suo corpo appare dilaniato. Egli cerca l’ospitalità della padrona di casa, affermando di averla cresciuta sin da bambina, di avergli fatto da padre. Anche Denise è orfana di genitori e ha in Ettore il suo unico punto di riferimento. Quest’ultimo prega ad Elena di occuparsi della ragazzina quando lui non ci sarà più, circostanza che si verifica in brevissimo tempo, non solo a causa della sinistra malattia che lo affligge, ma con il puntuale intervento del medico. Samuel per la prima volta conosce l’amicizia e anche l’amore per Denise la quale gli regala un iPad con su una canzone rock, Where Is My Mind, stupendo brano dei Pixies che Samuel ben presto impara a suonare al pianoforte. Denise è spigliata, vitale, un po’ ribelle, inizialmente baratta la sua amicizia in cambio di sigarette che il bambino si fa dare di nascosto dal giardiniere della tenuta, unica figura maschile con cui parla e che sembra comprenderlo. Ma le pulsioni e la vitalità di Samuel irritano la Madre, che vede nella ragazza un pericolo per lo sconvolgimento dei propri piani.
Nodale la scena in cui Samuel, ascoltando a ripetizione l’iPad con la canzone rock dell’amica, con gesto istintivo, muove, al ritmo della musica, un piede. Il medico dopo averlo visitato gli pratica un’iniezione e gli dice che si è sbagliato, non camminerà mai. Lo spettatore scopre dunque che Samuel non è affatto paraplegico, ma vittima delle patologiche misure coercitive della Madre, che si spinge contro ogni regola morale per tutelare il bambino da un pericolo non ben precisato. Anche Denise è una minaccia e viene dunque allontana dalla Tenuta, ma a causa della disperazione del piccolo Samuel, viene presto richiamata nella Villa, ma alle regole di Elena che desidera che la ragazza diventi mite e mansueta. Pertanto ordina al medico di sottoporla ad elettroshock.
Le immagini di questo ulteriore supplizio sono impressionanti: il medico esegue la tortura muovendosi a ritmi convulsi con sottofondo di una musica classica. Denise è trasformata, Samuel se ne rende conto e chiede al giardiniere di aiutarli a scappare dalla Villa. L’uomo li aiuta, dando loro il proprio furgoncino alla guida del quale si mette Denise, nel frattempo narcotizza Elena ed uccide il medico, poi però non fugge anche lui. Si uccide con lo stesso fucile che ha usato per sparare al medico. Forse sa che non c’è una vera via d’uscita, forse sa cosa c’è fuori. L’ultima sequenza del film ritrae Elena, sdraiata sul prato davanti a casa, abbandonata dal figlio e anche da tutte le persone che abitavano la villa. Nel frattempo, alle prime luci del giorno, il furgone guidato da Denise sfreccia tra le campagne e Samuel vede un abbozzo di quell mondo che ha sempre solo immaginato. Delle persone si intravedono nei campi, pian piano si avvicinano, sono tanti. Denise per un attimo arresta il furgone e si mette a piangere: lei è già stata lì fuori, lei già sa. Poi riaccende il motore e riparte, mentre un esercito di zombi, dalle fattezze e movenze mostruose si dirigono verso i ragazzi.
Un’epoca sospesa
Se il tempo in cui è ambientato il film è volutamente omesso (la specie umana è sempre a rischio di estinzione), altrettanto confusione nello spettatore viene creata dall’accostamento dell’ambientazione inizi 900, così come i costumi dei personaggi, con l’iPad portato da Denise. Forse il regista ha voluto creare un’atmosfera nella Villa come di un’epoca sospesa, senza eventi, senza contatti, senza tempo. La lussuosa dimora è pressochè sprovvista di mobili, quasi come gli antichi palazzi di nobili decaduti. Ogni stanza propone una tappezzeria a tutta parete, ma suggestiva anch’essa di epoche diverse: da fine Ottocento a quella degli anni Settanta.
Le citazioni cinematografiche
I richiami ad altri celebri film sono tantissimi. Tra questi la similitudine tra la figura di Denny che nel Shining di Stanley Kubrick si aggira, anche egli in regime di isolamento, nell’Overlook Hotel col suo triciclo tra i corridoi rivestiti in carta da parati, con Samuel che si sposta con la carrozzina nelle ale della Villa. E poi ancora Suspiria (Dario Argento), nelle sequenze dei macabri rituali di morte messi in atto dal medico il cui sguardo completamente folle richiama i tratti somatici di Hitler. Per alcuni versi anche Shutter Island (Martin Scorsese), dove detenuti più o meno con problemi psichiatrici, sono rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di un’isola dove praticano l’elettroshock. The Others (Alejandro Amenàbar), dove i due bambini vengono tenuti rinchiusi in casa, nella penombra, sotto il rigido controllo della mamma (Nicole Kidman) che li vuole proteggere da una realtà che nemmeno lei ancora conosce.
Misery Non Deve Morire (Rob Reiner): in questo caso l’amore perverso di una donna, fan del proprio scrittore preferito, è tale da ricorrere ad ogni stratagemma per tenerlo a se, rinchiuso a casa. Le lesioni alle gambe, anche in quel caso causate da un incidente, non possono guarire, perchè camminare rappresenta un chance in più per fuggire dalla casa. Così la donna arriva a spezzargli più e più volte le ossa già fratturate, così come Elena ordina al medico di mantenere il figlio Samuel immobilizzato sulla sua carrozzina, praticandogli le iniezioni nelle colonna vertebrale.
Il bene e il male
Anche in questo film la figura della Madre è centrale: è lei che decide per il proprio figlio, nel bene e nel male. Poichè ogni confronto con il Mondo esterno, con la vita, viene eliminato, il concetto di bene e di male diventa sfumato, di difficile comprensione, quasi inafferrabile. Elena è una buona madre, sta facendo il bene del figlio? Fino a che punto può spingersi questo amore? Fino a distruggere chi si ama? Secondo il Padre di Samuel e secondo il giardiniere, la libertà è un diritto irrinunciabile, anche se conduce a percorsi tortuosi e pericolosi. Secondo Elena il nido, la reclusione, è l’unica soluzione quando sopravvivere fuori diventa impossibile.
Il virus di oggi
Attualizzando queste riflessioni, ai difficili giorni che stiamo vivendo, si percepisce il film in una forma sfalsata rispetto ad una visione affrontata appena qualche mese fa: ora la reclusione è quanto viene ordinato dal nostro Paese per consentire alla razza umana di sopravvivere ad un virus sconosciuto che sta mietendo ogni giorno troppe vittime, al di fuori di ogni previsione. La preoccupazione per il nostro futuro, le risorse che dobbiamo riscoprire in noi stessi prima di tutto e poi in ciò che sappiamo e possiamo fare, viene confermata da questo film che, sebbene con tinte apocalittiche, mette sullo schermo uno scenario che abbiamo anche noi fuori dalla nostra porta, dal nostro nido. In base ad un altro parallelismo tra finzione cinematografica e realtà, si può infine riflettere che nella prima è Elena che, in modo autonomo, più o meno meditato, sceglie un’intera vita di autoreclusione per se e per il figlio; nella realtà, la situazione di isolamento ci è stata imposta a fronte di un’assai scarsa coscienza circa la precarietà della nostra specie e la necessità di comprendere quanto si possa e si debba fare nell’interesse della collettività e non del singolo.
Tornare ad essere liberi di scegliere
Nel film, che si snoda lungo un arco temporale 10 anni non pare esserci soluzione al virus letale e dunque isolarsi e proteggersi è una necessità non temporanea. I dati statistici della vera epidemia che stiamo affrontando prospettano una fine del contagio, con i dovuti comportamenti precauzionali. Il monito è seguirli per poi essere liberi di poter scegliere, magari meglio, come affrontare ciò che c’è la fuori.
Alice Luce