Qualche giorno fa Talien, il primo lungometraggio del regista italiano emergente Elia Mouatamid, prodotto da cinqueesei, ha vinto il Premio come miglior film alla Terza Edizione del Working Title Film Festival. Si tratto dell’ennesimo riconoscimento (dopo il Premio Speciale della Giuria e il premio collaterale Gli Occhiali di Gandhi al 35° Torino Film Festival; La Menzione Speciale come Miglior Opera Prima ai Nastri Argento DOC 2018 di Roma; la Menzione Speciale della Giuria alla III Edizione di Italia In Doc a Bruxelles; la nomination per il miglior film a tema migrazione al 5° Socially Relevant Film Festival di New York) per un road movie che, attraverso la vera storia del suo autore, ci offre un’istantanea poetica e veritiera del nostro tempo.
Talien
Girato tra Italia, Francia, Spagna e Marocco, il film racconta la storia di Aldo e di Elia. Aldo, che ha 60 anni e in realtà si chiama Abdelouahab, è marocchino e vive in Italia dagli anni Ottanta mentre Elia, Ilyes, suo figlio, fin da neonato. A volte parlano in dialetto bresciano, a volte in lingua italiana, altre volte in arabo. Dopo diversi anni di lavoro, i due sono riusciti a trasformare un vecchio camion militare in un camper, un mezzo unico, che a gennaio del 2016 è finalmente pronto ad affrontare la strada: Aldo vuole andare in Marocco ed Elia decide di accompagnare il padre in questo viaggio. Inizia così un percorso che porterà i nostri protagonisti dall’Italia al Marocco attraverso Francia e Spagna.
Talien è un racconto di viaggio che rievoca la strada che trent’anni prima lo stesso Aldo aveva dovuto affrontare nella direzione opposta. A far da sfondo alla relazione tra padre e figlio ci sono la storia di due culture che si fondono, un’Italia diversa rispetto a molti anni prima, una famiglia che non ha perso le proprie radici, i racconti di vita, di viaggio, di lavoro e un viaggio di cinque giorni che trasformerà per sempre il rapporto tra un genitore e suo figlio, grazie a silenzi, confidenze e momenti molto intimi.
Per trattare i temi del film, ho deciso di intervistare il regista Elia Moutamid.
È arrivato un altro prestigioso riconoscimento per Talien, il tuo primo film. Che sensazioni provi? Che significato hanno per te questi premi?
Ho sempre considerato i premi come un punto di inizio e non un punto di arrivo. I premi sono conferme, riconoscimenti che mi autano a credere ancor di più nell’urgenza di raccontare storie attraverso il linguaggio cinematografico. Non potrei concepire un progetto senza sentire una certa urgenza. Ovviamente sono molto felice di riceverli.
Talien è la tua storia, ma è anche la fotografia del nostro tempo. E forse proprio per questo conquista lo spettatore. Secondo te qual è la forza principale del film?
Credo che uno dei punti di forza di questo film sia l’universalità della storia raccontata. Partendo da una vicenda molto intima e autobiografica siamo riusciti far sì che tante persone si potessero identificare. Il film parla di migrazioni ma soprattutto di rapporti famigliari, nello specifico del rapporto tra un padre e suo figlio: credo che sia difficile non trovare dei momenti in comune, in effetti. Sono rimasto molto colpito dalle reazioni che mi hanno raccontato in Italia, in Belgio, negli Stati Uniti perché avevano tutte un terreno comune nonostante i luoghi fossero diversi. Mi ha fatto molto piacere ma allo stesso tempo ho ricevuto una conferma che mi ha offerto spunti di riflessione.
Dopo averlo pensato e scritto, hai realizzato questo film, dietro e davanti alla macchina da presa. Se sullo schermo vediamo un viaggio, quello di un padre e di un figlio, possiamo considerare un viaggio anche tutta la realizzazione? Che esperienza è stata per te questo tuo primo lungometraggio?
Assolutamente sì. Il film è stato un vero e proprio viaggio, vissuto e faticato. Esordire è sempre una grande emozione, un grande senso di responsabilità: farlo con una storia così intima, e per giunta con tuo padre, amplifica ogni dettaglio, ogni momento. La grande fortuna è stata avere la disponibilità totale di mio padre che si è messo in gioco in modo naturale, è stato davvero aperto e conciliante. In più, questo esordio è stato reso possibile anche grazie a una troupe fatta di ottimi professionisti, oltre che amici, cosa che ha reso ancora più scorrevole ogni passaggio. Insomma, ho potuto concedermi e restituire la spontaneità necessaria anche davanti alla macchina da presa. Interpretare se stessi, contrariamente a quello che si pensa, è molto complesso, è stata una bella sfida. Talien è stata un’esperienza bellissima e molto significativa sia per il mio percorso da regista che come uomo.
Quando vedo i protagonisti parlare arabo, poi italiano, poi dialetto bresciano, senza sapere il perché, ho pensato a questa frase “Vorrei entrare dentro i fili di una radio, E volare sopra i tetti delle città, incontrare le espressioni dialettali, mescolarmi con l’odore dei caffè”. Si tratta di una delle più belle poesie della musica italiana, “Le Rondini” di Lucio Dalla. La trovi anche tu suggestiva? Riesce a cogliere qualche sfumatura universale dell’Uomo e del tuo film?
Lucio Dalla è senza dubbio uno dei poeti della musica italiana, quindi non posso che essere d’accordo con questa tua dolce e gradita suggestione. Le sfumature linguistiche in Talien sono state frutto di una scelta ponderata che si è rivelata peculiare e vincente.
Dall’Italia al Marocco, dal Marocco all’Italia. Tragitti del corpo e dell’anima, a caccia di un futuro, di una vita dignitosa, senza dimenticare le proprie radici. Tu, attraverso Talien, che riflessioni vuoi proporre al pubblico sul tema immigrazione e sul tema lavoro?
Talien è un film basato anche sul tema del lavoro, perché riflette sulla necessità di averlo per conquistare il diritto di vivere dignitosamente. Il lavoro è qualcosa che fa parte di noi, perché avere una sfera professionale appagante e soddisfacente, pone le basi di una vita stimolante. Il lavoro è fondamentale. Prima di dedicarmi completamente al cinema (ci sto provando!) ho lavorato 15 anni in azienda e so perfettamente cosa significhi sacrificarsi, e magari non sentirsi appagati. Per quanto riguarda la migrazione, la cosa che vorrei trasmettere con Talien è quanto le sue dinamiche siano universali. Sono esattamente le stesse, a prescindere dalla cultura e dalla collocazione storico-geografica: questo è un altro elemento, credo, in cui tante persone si sono riconosciute. Mi fanno ridere e poi arrabbiare gli slogan di una certa politica nazionalista dove si difendono concetti come la “razza pura” in Italia…ma fatemi il piacere!
Elia, tu sei nato in Marocco, ma vivi in Italia. Qual è, sia come uomo che come regista, il tuo rapporto con l’Italia? Le tue origini sono mai state un ostacolo?
Io sono nato in Marocco, ma ho aperto gli occhi in Italia all’età di due mesi. Mi considero ampiamente italiano, anzi bresciano per la precisione. Il rapporto con l’Italia? È il mio paese. Le mie origini marocchine sono state un arricchimento incredibile. L’intelligenza dei miei genitori ha fatto sì che assorbissi entrambe le culture come una spugna, sempre con atteggiamento aperto e senza imposizioni, in modo da poterle conoscere entrambe, e a volte permettermi di metterle in discussione. Successivamente questo ha favorito anche la nascita dell’urgenza, come regista, di raccontare la società e le culture che mi circondano. La mia teoria è che non esistono culture perfette, ma esistono culture che si completano. Adoro il Marocco, è un paese che mi ha regalato tanto, non è mai stato un ostacolo, anzi il contrario.
In questo difficile momento storico, che perdura da anni, il forte senso di instabilità che avvertiamo, rispecchia anche l’incertezza politica. Tu cosa ne pensi?
Sento un enorme carenza di cultura che dilaga tra la popolazione (so di non dire nulla di nuovo, ma questo è). Non siamo più abituati a essere curiosi e a fare delle ricerche in autonomia. Vogliamo, e spesso ci fidiamo, teorie già confezionate, comodamente consultabili e quindi riutilizzabili. La politica conosce bene questa debolezza e la utilizza diabolicamente, non per supportare il suo elettorato come dovrebbe, ma come cassa di risonanza. Penso che in Italia il senso di responsabilità politica, ma anche il concetto stesso di “politica”, siano in fase di estinzione. Anche il “mestiere” del politico è una cosa che fatico a vedere nei rappresentanti attuali. E questo è molto pericoloso.
L’Italia, tra sogni realizzabili e utopie, tra bellissimi panorami da fotografare e, al contrario, mancanze di prospettive per i giovani. Quanto la scuola, la cultura e l’arte sono importanti per far ripartire anche l’economia?
Non sono solo importanti, sono fondamentali. Come ti dicevo nella risposta precedente, la carenza culturale, l’ignoranza, sono veleno per ogni società. La cultura parte dai primi insegnamenti, quindi dalla scuola, dai giovanissimi. Una società che studia è una società che si confronta e può diventare una buona società, che genera persone interessanti e non degli automi fini a se stessi. L’arte poi, se applicata con senso di responsabilità e sacrificio, è un veicolo potentissimo per sfatare convinzioni errate e guazzabugli direi medievali a cui assistiamo quotidianamente. Soprattutto lo studio può educare le persone alla riflessione, a usare il cervello e non la pancia. C’è bisogno di tornare alla bellezza, c’è bisogno di arte, sempre. L’economia che funziona è la diretta conseguenza di una società felicemente curiosa che ha bisogno di produrre, viaggiare, esplorare, studiare e quindi consumare con saggezza.
In tutto questo quanto il cinema continua ad essere decisivo? Sia come espressione artistica, sia per lanciare un messaggio…
Mi sono avvicinato al cinema non solo perché lo amo ma anche perché il cinema è, secondo il mio punto di vista, il linguaggio artistico più potente per la divulgazione di un messaggio. Finché avrò la possibilità di utilizzarlo per raccontare storie lo farò con l’urgenza di dire (mai girare un film senza una viscerale necessità, so che l’ho già detto ma è un concetto fondamentale!) e tutto il senso di responsabilità possibile. Con Talien sono partito con il piede giusto, almeno questo è quanto emerso dal pubblico e dalla critica, grazie a dei collaboratori meravigliosi. Ho ancora molto da imparare dai miei maestri, che spesso sono persone “semplici “e non addetti al cinema. La strada è lunga e spero meravigliosa.
Intervista di Giacomo Aricò