Per Isabella Ragonese non esiste una distinzione tra la vita e l’arte. Lei, tra le più brillanti e incisive attrici del nostro cinema, in ogni personaggio mette un pezzo della sua anima e del suo qui e adesso. In questo suo primo decennio professionale, tra teatro (il suo primo amore) e settima arte, è già stata capace di regalare al pubblico interpretazioni memorabili che sono entrate nel cult. Penso in particolare a Tutta la Vita Davanti di Paolo Virzì e al poetico e romantico Dieci Inverni di Valerio Mieli. Ho aspetto proprio oggi a pubblicare l’intervista che le ho fatto qualche mese fa a Milano, quando la Primavera stava bussando. Ho aspettato che a bussare fosse l’inverno perché è in quella stagione, ripetuta dieci volte, che mi ha emozionato di più.
Gentilissima, mi ha regalato una bella chiacchierata prima di presentare al cinema Dobbiamo Parlare di Sergio Rubini. Un film diventato Provando…Dobbiamo Parlare, uno spettacolo teatrale che, proprio in questo weekend al Teatro Umberto Giordano di Foggia, porterà ancora in scena. È da lì che abbiamo iniziato a parlare.
Dobbiamo Parlare di Sergio Rubini, dal set cinematografico al palcoscenico. Quanto il teatro può essere al servizio del cinema e viceversa?
Tantissimo. Nel mio lavoro lo è sempre stato perché io ho iniziato con il teatro e negli anni ho sempre cercato di fare sia film che tournée. In Italia, fino a qualche tempo fa, cinema e teatro erano viste come cose molto lontane tra loro, ma ora quest’idea sta finalmente cambiando. Dobbiamo Parlare è la dimostrazione di quest’operazione che lega film e spettacolo teatrale. Perché il cinema nutre il teatro e il teatro nutre il cinema.
Cosa cambia per un attore nel recitare la stessa parte prima al cinema e poi a teatro?
La tournée teatrale ti permette di essere in un continuo spazio di prova che con i tempi del cinema spesso non è possibile. Allo stesso tempo il cinema ti dà la possibilità di lavorare sui micromovimenti del personaggio che a teatro non si riesce a cogliere in pieno. Il palcoscenico ti tiene più lontano dagli spettatori e un’analisi minuziosa del personaggio un po’ sfugge.
Dieci anni fa, in Nuovomondo di Crialese, il tuo debutto al cinema. In Una Storia Sbagliata di Tavarelli e In Un Posto Bellissimo di Cecere, vesti i panni di due donne alla scoperta di se stesse. Com’è andato questo primo decennio? Tu con il passare del tempo cosa stai ancora scoprendo di te?
Questo lavoro l’ho iniziato molto giovane, a diciott’anni. Ho incontrato il teatro a scuola e da lì poi sono arrivata al cinema. Non c’è un “prima” per me, è qualcosa di connaturato, legato a doppio filo con la mia vita e la mia evoluzione. Facendo film e spettacoli si vive, si cresce, si cambia. Il motivo per cui scelgo di recitare è che mi permette di continuare l’indagine su me stessa. Recitare mi dà la possibilità di crescere, sia a livello personale che, spero, a livello artistico. Quando rivedo i film di dieci anni fa, vedo l’Isabella ingenua dei primi tempi (ride ndr.), sia come attrice che come persona. Di sicuro sono grata al mio lavoro perché senza dubbio mi ha reso una persona migliore di quella che ero.
Impossibile dividere le due cose…
Quando giro un film mi dedico solo a quello, investo la mia vita. Catturo il personaggio mettendoci dentro quello che la mia anima sta vivendo in quel momento preciso. Crescendo, ho interpretato donne più mature che ho deciso di maneggiare con più cura, cercando nuove sfumature. Per interpretare i personaggi di Una Storia Sbagliata e In Un Posto Bellissimo, ho fatto tesoro delle mie esperienze personali. Credo che per un’attrice, oltre allo studio e quindi all’aspetto più artigianale del mestiere, sia fondamentale vivere il più possibile. Arricchire il proprio vissuto, viaggiando, restando curiosi e scoprendo storie – in un libro, in un cinema o in un teatro – è importante per sapere raccontare un personaggio.
Se ti chiedo qual è il personaggio che hai interpretato che ti è rimasto più impresso?
Impossibile rispondere. Ogni personaggio è legato ad un momento preciso della mia vita. Alcuni sono riusciti meglio, altri sono legati a periodi che non ricordo con piacere. In realtà a me sembra di interpretare sempre lo stesso personaggio con mille sfaccettature diverse. Mi piace l’idea che un attore, pur dovendo essere istrionico, metta sempre la firma in quello che fa e che quindi non sia sostituibile.
Pensando ai giovani e al lavoro, quanto continua ad essere tremendamente attuale Tutta La Vita Davanti che hai girato con Paolo Virzì nel 2008?
Forse la situazione è addirittura peggiorata (ride ndr.). Quel film, una commedia amara, arrivava in un momento in cui il precariato già esisteva e stava prendendo sempre più piede. Il fatto che sia diventato un manifesto dei precari e che ancora oggi si ricordi, con angoscia, mi fa capire che è ancora molto attuale. In Italia il modo di dire “hai tutta la vita davanti, stai buono che poi toccherà a te, sei giovane” ora si sta adattando ad una fascia d’età sempre più alta. Oggi sembra che stiamo vivendo un’eterna adolescenza. Nel film interpretavo una ragazza di 25 anni, ma oggi tutta la vita davanti si può dire anche ad una di 45 anni. Per questo motivo trovo che tutto è tristemente peggiorato…
Valerio Mastandrea, con cui hai lavorato anche ne La Sedia della Felicità di Carlo Mazzacurati, mi ha detto che il cinema italiano “lo può salvare solo il pubblico” sei d’accordo con lui?
Credo che ognuno di noi, per la sua parte, ha una sua responsabilità. Fare delle cose in cui crediamo, senza vendere fumo. Quando faccio un film mi chiedo cosa poi dirò quando dovrò presentarlo, il perché l’ho scelto e il perché l’ho fatto. Se non so cosa dire, allora non lo inizio nemmeno. Non mi piace prendere parte ad un film solo per i soldi o perché non ho altro da fare. Quando ho la fortuna di scegliere, opto sempre per storie che credo possano interessare. Il pubblico va eternamente ringraziato, anche perché andare al cinema oggi è diventato sempre più difficile. Il mondo è cambiato, le fruizioni del film sono molteplici, ci sono più supporti. Tutto questo penso che dia una grande mano al cinema, anche se la magia della sala buia è inarrivabile. Trovarsi nello stesso luogo con degli sconosciuti e ridere per le stesse cose trovo che sia sempre emozionante.
Senti, il film in cui hai recitato che preferisco è Dieci Inverni di Valerio Mieli. Trovo che negli ultimi anni quella sia forse la più grande (e vera) storia d’amore raccontata al cinema…
Un’esperienza meravigliosa, anche perché io e Michele Riondino ai tempi non avevamo fatto moltissimo in precedenza. Non era un film furbo, è stata una sfida per entrambi perché non eravamo facce note. È stato un film fatto d’istinto, con il cuore. Era la storia che voleva raccontare il regista, la sua storia. È il cinema che piace a me, ovvero quando la storia di una persona diventa universale. Tutti noi, come i protagonisti, abbiamo provato quelle emozioni, verso una persona speciale che, per le più varie circostanze della vita, ci è sempre sfuggita. Io non sono molto amante dei film romantici, ma Dieci Inverni parla davvero a tutti.
Tu interpretavi Camilla Sannucci…
Venezia, il set, il fatto che io e Michele ci sentivamo davvero dei studenti universitari, il meraviglioso ricordo del grandissimo Marco Onorato, il direttore della splendida fotografia del film che oggi non c’è più. Tutto questo si lega all’immensa gioia per essere ancora oggi, a distanza di anni, fermata per strada per questo film. C’è chi si lamenta di essere ricordato solo per un personaggio, credono di essere ormai cristallizzati solo in un ruolo. Io invece penso che per un attrice non ci sia soddisfazione più grande. Dieci Inverni è un film che rimane, che negli anni diventa un cult. La storia di Camilla è diventata la storia di tutti. Fa parte di una memoria collettiva e trovo che sia una cosa bellissima.
Nel film Silvestro nei primi anni 2000 invia la prima email. Oggi invece siamo invasi dai social e dalla comunicazione virtuale. Tu cosa ne pensi?
Non amo i social, e mi sento vecchia quando vedo tutti, anche gente più grande di me, impazziti con la testa china sui loro smartphone. Io ne faccio un uso molto primitivo invece. Io sono cresciuta con la televisione, anche quella brutta, degli anni ’80. Dipende sempre da come si utilizzano le cose, mi spaventa un po’ questa autogestione. Mi piacciono le cose fatte insieme. La condivisione emotiva che passa solo attraverso uno schermo mi fa paura. I post, i tweet, non hanno sfumature e profondità, si faticano a leggere e interpretare.
Qual è la reale condivisione oggi?
Sul web ci sono anche aspetti positivi, i ragazzi possono montare e pubblicare da soli le loro proposte e farsi conoscere. In questo non sono bigotta. Però credo che servano delle regole: se si accusa il cinema di dare il cattivo esempio, bisogna anche stare attenti a ciò che si pubblica. Però quello che mi spaventa di più è il fatto che sui social non vedo una reale comunicazione di scambio. Uno manda una foto e l’altro, anziché guardarla, manda a sua volta la sua. Mi sembra un dialogo inesistente. Io invece faccio un lavoro che è contro il virtuale: dobbiamo tenerci stretti tutti quei momenti che ci fanno sentire una comunità, perché una comunità è una civiltà.
CAMERALOOK
Stefania Sandrelli in Io La Conoscevo Bene. Il suo mascara che si scioglie, prima del finale. Uno sguardo che, anche se ho visto il film mille volte, ancora oggi continua a commuovermi.
Intervista di Giacomo Aricò