Dal 18 giugno a noleggio e da luglio in vendita, Nuova Alfabat distribuirà in home video un film che sta diventando il caso cinematografico dell’anno: Zero Bagget, il docufilm-reality diretto e interpretato da Michele Coppini. L’attore e regista fiorentino, al suo terzo film dopo Mani Molto Pulite e Benvenuti in Amore, ha girato tutto il suo film in HD attraverso il suo Samsung Galaxy S 5, senza un copione e senza nemmeno un soldo di budget a disposizione. Un lavoro sperimentale, anche attraverso le musiche di Francesco Guasti (che ha concesso gratuitamente il brano Scintilla Contro Scintilla), in cui Coppini ha utilizzato se stesso e la sua vita per raccontare la precarietà lavorativa e soprattutto la sua passione viscerale per il cinema.
L’autore, attraverso diverse esperienze, si è fatto alcune domande sul sistema cinematografico: In che situazione versa il cinema italiano? Quanto è difficile per i nuovi registi trovare spazio nel mercato cinematografico? Con l’aiuto dei suoi amici e con l’amichevole partecipazione di Shel Shapiro e Paolo Ruffini, Coppini ha provato a rispondere con questo Zero Bagget, un’autentica istantanea di questi tempi, di mail inviate che non trovano risposte, di eterne attese, di sogni in standby, di possibilità negate, di futuro da andarsi a prendere con tutte le forze che si hanno nell’anima.
Per approfondire l’argomento, abbiamo deciso di intervistare Michele Coppini.
Prima di tutto ti volevo chiedere: che risposta hai avuto e stai avendo da questo tuo esperimento? La tua riflessione è riuscita a far riflettere qualcun altro, ovvero i produttori?
Devo dire che mi sono e mi sto meravigliando tutti i giorni dell’ottimo riscontro che sta avendo il mio film. Intanto per quanto riguarda la critica, avevo paura ci fosse più “puzza sotto il naso” per un progetto come Zero Bagget e invece ho notato con piacere che come è cambiato il cinema e il modo di farlo è cambiata anche la mentalità di giudizio. E poi mi ha colpito l’interessamento di una casa di distribuzione come Nuova Alfabat che ha deciso con entusiasmo di prendere a braccetto il film e distribuirlo in Italia per il mercato dell’home video, cioè tanta roba!. Per quanto riguarda invece i produttori ancora non lo so, aspettiamo che esca e vediamo se è cambiato qualcosa anche dal loro punto di vista…
Nel film parli del tuo grande amore per il cinema, e ad un certo punto mi ha colpito la frase “deformazione passionale”: ce la potresti descrivere?
È semplice. La “deformazione professionale” è un automatismo che ti porta a comportarti sempre nello stesso modo anche fuori dagli orari di lavoro e se si parla di lavoro è immaginabile che ci sia una retribuzione. Per me invece il cinema è sempre stato una “deformazione passionale”, cioè lo vivo con gli stessi automatismi di un lavoro con la sola differenza che non mi ha mai fatto arrivare a fine mese. Mi fa sognare sì, ma non campare…
Spesso si sente dire che la crisi del cinema italiano è in realtà una crisi di idee. Tu sei d’accordo? Non pensi che di idee, anche a “(quasi) zero budget”, ce ne siano e anche buone?
Le idee ci sono e ce ne sarebbero anche di innovative ma il problema è che il “sistema” ha paura di rinnovarsi con storie e generi diversi. Perché anche una commedia potrebbe essere fatta in modo originale. Ma per non rischiare si preferisce utilizzare sempre la solita formulina vincente. Però non capiscono che il problema è proprio questo! Io per esempio impazzisco per la pasta col ragù. Ma se te mi facessi mangiare un super ragù tutti i giorni dopo due settimane diventerei vegetariano!
Nel tuo film Paolo Ruffini esalta il web come mezzo d’espressione libero che permette a tutti di pubblicare i propri lavori. Tu cosa pensi al riguardo? Esiste un rovescio della medaglia? Non c’è un eccessivo “sovraffollamento virtuale” con una maggiore difficoltà di emergere?
Quando c’è democrazia c’è tutto e il web, al momento, rappresenta una bella forma democratica di dare a tutti la possibilità di mettersi in mostra. Forse magari è sbagliato il messaggio che viene dato dai media, quello che se non hai successo non sei nessuno. Ed è per questo che poi si forma un sovraffollamento di gente che s’improvvisa dall’oggi al domani regista, attore, modello o cabarettista. Ma una volta capito e scremato gli improvvisati il numero si dimezza immediatamente.
Quelli che stiamo vivendo sono tempi davvero tosti. Secondo te quando si realizza davvero il sogno di fare cinema? Semplicemente realizzandolo o guadagnandoci sopra qualcosa? Quanto la necessità artistica di esprimersi, realizzando un film, è indipendente dalla necessità economica?
Da malato di cinema quale sono ti direi che intanto farlo è già qualcosa ma è un errore immenso pensarlo davvero perché una forma artistica va sempre retribuita, è un lavoro! Sennò vivremmo tutti di “deformazione passionale”. Un film è una forma artistica di gruppo, non lo fa solo il regista o l’attore. Se non vengono pagati il regista, gli attori o il direttore della fotografia figuriamoci se verranno pagati un elettricista o un macchinista. Quando invece un elettricista e un macchinista sono l’ossigeno che fanno battere il cuore del film. Chi fa cinema dev’essere pagato come chi fa qualsiasi altro lavoro. Altrimenti, continuando così, si rischierebbe di far diventare questa la formula vincente di ogni produzione.
Quando ti ho visto di fronte all’ingresso di Cinecittà mi è venuto un po’ di magone, così come quando scorrono le immagini dei vecchi cinema e dei monosala che stanno chiudendo. Cosa pensi di questa nuova epoca? Quanta nostalgia hai del passato?
Purtroppo Cinecittà ormai la dovrebbero chiamare TeleCittà perché si fanno più reality che film. E’ un peccato veder così gli Studios, in quei capannoni ci lavoravano i più grandi artigiani, le migliori maestranze al mondo. E così anche per i piccoli cinema. Va bene qualche multisala ma a tutto ci dev’essere un limite. Lo Stato dovrebbe salvaguardare i piccoli esercenti, cercare di venirgli incontro per il bene della cultura italiana. Magari già quest’anno, in quanto ogni sala cinematografica ha l’obbligo di attrezzarsi per proiettare in digitale visto che dal 2015 le distribuzioni non forniranno più i film in pellicola. E questa è un’altra nota nostalgica… ma d’altra parte dobbiamo pure stare al passo coi tempi.
Cosa rappresenta per te il cinema? C’è stato un film, un attore o un regista che ti hanno fatto innamorare della settima arte?
Porca miseria mi fai una domanda talmente difficile che è come scegliere tra Baggio e Maradona… Comunque ci provo dicendoti che in Italia ho due modelli: Francesco Nuti e Carlo Verdone, con loro ho letteralmente bruciato decine di videoregistratori, mentre in America adoro i film scritti da Nora Ephron.
Mi piacerebbe invertire il testo della canzone di Shel Shapiro, che hai intervistato nel tuo film: “Bisogna saper vincere, non sempre si può perdere”! Sei d’accordo? Che messaggio vuoi lanciare a te stesso e a tutti coloro che fortemente credono, ancora e con passione, a un domani e un futuro?
Ma come avrai visto nel film anche Shel Shapiro stesso non la pensa più come negli anni Sessanta e questo ritornello ormai lo rinnega. Però io sono per lasciarlo invariato, perché se impariamo a perdere acquisiremo anche una forza maggiore per reagire e magari trasformare il tutto in una vittoria. Sapere perdere non vuol dire arrendersi, vuol dire prenderne atto e dare il giusto valore alla cosa. Vi sembrerà strano ma spesso è più vincente una sana sconfitta. Ve lo dice uno che ha imparato a saper perdere sulla sua pelle.
Intervista di Giacomo Aricò