Quarant’anni di storia italiana e siciliana attraversano I Racconti Della Domenica, il film – nelle sale dallo scorso novembre – diretto da Giovanni Virgilio che vede tra i suoi interpreti Rita De Donato, un’attrice dalla grande sensibilità che veste i panni di Angelica una ragazza sognatrice e un po’ folle che si innamora del fratello del protagonista, un prete (che ha il volto di Paolo Briguglia). Espressione migliore della bellezza mediterranea (è nata a Cosenza), Rita De Donato si è formata tra l’Italia e la Francia (a Parigi ha perfezionato i suoi studi di sociologia), dividendosi tra teatro di sperimentazione e quello piú tradizionale. L’amore per il palcoscenico è totale, ma anche la settima arte è parte di lei, sia davanti che dietro alla macchina da presa.
Dopo essersi diplomata in regia all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico (ha debuttato dirigendo Maria Paiato nel corto La Busta), Rita De Donato ha lavorato con grandi registi come Silvio Soldini, Francesco Munzi, Mimmo Calopresti ed Emanuele Crialese che l’ha arruolata – mettendola a fianco di Penelope Cruz – per la sua ultima intima opera L’Immensità, presentata lo scorso settembre alla 79. Mostra del Cinema di Venezia.
È al cinema I Racconti Della Domenica. La tua Angelica è una donna determinata, sognatrice (e forse un po’ ingenua), non convenzionale rispetto all’epoca nella quale è ambientato il film. Come hai costruito il tuo personaggio?
La traccia principale mi è stata data del racconto dal regista. Tutti i personaggi che attraversano il film prendono spunto da persone realmente esistite. La sfida era quindi quella di dare corpo a una persona che era esistita e la cui immagine restava nel ricordo degli autori. Anche se, come sempre, la trasfigurazione filmica ci dà un certo margine di libertà, che mi ha permesso di costruire il personaggio.
Il titolo del film mi evoca immediatamente nostalgici ricordi d’infanzia. La domenica era una festa, e i racconti della domenica diventavano forse il momento più atteso della settimana, il focolare di famiglia. Condividi anche tu questi ricordi? Quali sono per te i “racconti della domenica”?
Sì, ognuno di noi ha una storia che attraversa le generazioni che ci precedono e che arriva, magari un po’ romanzata, fino a noi. In genere sono i più anziani (nonni, zii) a essere il canale attraverso cui ci arriva questo mondo che non esiste più ma che in qualche modo ci ha dato forma. Io ho avuto un rapporto molto forte con mia nonna, e anche se lei da poco purtroppo non c’è più, mi restano tantissime storie, e racconti di mondi che non ho vissuto direttamente, ma che sono sempre presenti nella mia immaginazione.
Nella pellicola il tuo personaggio si innamora di un prete, interpretato da Paolo Briguglia. Cosa prova Angelica verso questo uomo “impossibile”? Come hai lavorato su questo aspetto? (Una donna che si innamora di un uomo di fede).
Angelica crede nell’amore. E pensa che questo sentimento profondo e puro, e la sua determinazione nel per seguirlo, possa modificare la realtà. Sente che la scelta di Antonio non è così radicata, e che possa ancora essere suscettibile di ripensamenti e mette tutta se stessa nell’ “impresa”, non lasciandosi frenare dal giudizio degli altri. È una scelta di libertà, per quanto estrema, in cui crede profondamente. Come mi è stato raccontato dal regista, anche nella realtà resterà fedele a questo sentimento per tutta la vita.
A Venezia ti abbiamo visto ne L’immensità di Emanuele Crialese. Volevo sapere che significato ha avuto per te lavorare a fianco di Penelope Cruz: che attrice e donna hai conosciuto dentro e fuori dal set?
È stata una bella esperienza. È un’ attrice meravigliosa e una persona sempre attenta agli altri.
So che hai studiato sociologia a Parigi. Cosa ti è rimasto dentro della Francia? Come si vive il cinema in oltralpe?
L’approccio francese alla cultura in generale è molto più serio. Si crede molto di più nel suo valore, a partire dall’ambito della ricerca universitaria, a quello dell’arte, del teatro e del cinema. Si investono molte più risorse, neanche paragonabili alla situazione italiana. E questo, a lungo andare, da i suoi frutti sull’intera società.
Cosa ti spaventa di più della nostra società? La comunicazione virtuale-pervasiva-totalizzante dei social media ci stanno portando ad una incomunicabilità di antoniniana memoria?
La comunicazione virtuale può essere una risorsa ma può anche generare dei fraintendimenti. Il rischio è di creare confusione tra ciò che è e ciò che appare. Il corpo, con la sua sola presenza, attiva una contatto basato su una “verità” che non è eludibile. Laddove manca, come nel virtuale, il rischio di disorientamento è molto alto, e questo mi spaventa un pó, soprattutto pensando ai giovanissimi che ancora stanno costruendo un contatto profondo con sé e con gli altri.
Dieci anni fa ti diplomavi in regia all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. Con quali occhi Rita guardava il mondo all’allora e con quali occhi Rita guarda il mondo oggi.
C’è un luogo profondo che rimane intoccato e intoccabile sin dall’infanzia, ci tengo molto a preservarlo perché credo sia anche il luogo dove nasce il tentativo di fare arte: è il luogo della meraviglia e dello stupore. Per rimanere a contatto con esso, si deve resistere al cinismo e alle delusioni, e a volte non è facile perché si è sempre esposti. Forse oggi sono un pó più capace di non farmi travolgere da questa mia “ipersensibilità”, o almeno diciamo che sto imparando.
Intervista di Giacomo Aricò