In contemporanea con Lo Spiraglio – FilmFestival della Salute Mentale, è da oggi al cinema La Dolce Arte di Esistere, il nuovo interessante e curioso film scritto e diretto da Pietro Reggiani con protagonisti: Francesca Golia, Pierpaolo Spollon, Rolando Ravello, Anita Kravos e Salvatore Esposito.
In un mondo in cui si suppone esista l’invisibilità psicosomatica, ovvero in cui le persone con difficoltà di relazione, in certe situazioni, diventano letteralmente invisibili, seguiamo l’incontro tra Roberta (Francesca Golia), che ha bisogno di attenzione, altrimenti scompare, e Massimo (Pierpaolo Spollon), che al contrario, ansioso, scompare se sente attenzione su di sé.
A Pietro Reggiani l’invisibilità è sembrata “una buona metafora di una difficoltà ad affrontare la vita. Mi piaceva aver immaginato due invisibilità – mi era venuta più immediata quella legata all’ansia, all’essere oggetto di attenzione, ma mi suonava bene anche quella opposta, legata al non ricevere alcuna attenzione”.
Ecco la nota del regista Pietro Reggiani: “L’invisibilità dei protagonisti poteva o meno essere eccezionale. Nel primo caso, “i due che per la prima volta nella storia dell’umanità scomparivano sarebbero divenuti celeberrimi, e in un certo senso fatalmente destinati a incontrarsi. Una versione che aveva il pregio di permettere una riflessione esplicita sull’invisibilità: i sociologi, nel film, avrebbero riflettuto su quanto l’apparire di una scomparsa per ansia fosse stata una spia dell’eccessiva pressione sulle giovani generazioni, ritenute beneficiarie di eccezionali opportunità educative e tecnologiche e quanto l’apparizione di una scomparsa per solitudine e avvilimento non fosse, al contrario, la spia di una eccessiva indulgenza verso i giovani, lasciati liberi di sbagliare al punto da non sentirsi sostenuti nei loro sforzi quotidiani”.
“Non sarebbe stato sottaciuto il verosimile legame che fenomeni di invisibilità apparissero in una società fortemente condizionata dall’immagine, o che queste difficoltà nei rapporti umani fossero ingigantite dal passaggio di una ampia fetta di vita relazionale alla dimensione virtuale del computer; né, infine, che in una società sempre più aperta, perfino liquida, le occasioni di riuscire ma anche di fallire sono sempre più numerose, portando a fenomeni opposti e complementari di ansia e di depressione”.
“Ma, a fronte di alcune ottime scene per discettare sul fenomeno, la storia intima dei protagonisti e il loro lottare contro l’inesistenza sarebbero stati fortemente condizionati dalla loro celebrità: mentre a me piaceva l’idea che i percorsi fossero più quotidiani, che la parte di ognuno di noi che vorrebbe scomparire o che si sente invisibile trovasse in loro due campioni più a portata di mano. Di qui la decisione di optare per la seconda soluzione: l’invisibilità sarebbe stata, nel mondo del film, una sindrome già conosciuta, nota come invisibilità psicosomatica”.
“E il verificarsi delle scomparse avrebbe suscitato la panoplia delle reazioni che sappiamo dipendere dai caratteri di ognuno, dal disagio al dolore, dall’assuefazione all’esasperazione. E il percorso dei nostri personaggi sarebbe avvenuto in una dimensione di quotidianità, di intimità. Le considerazioni sulla rilevanza sociale del fenomeno in fondo potevano rimanere implicite ed essere affidate allo spettatore o, se vogliamo, alle note di regia”.
“Risolversi all’invisibilità sindrome già conosciuta in effetti rendeva però impegnativo conservare il giusto tono del film: per due scomparse uniche nella storia dell’umanità, infatti, sarebbero abbondati i modelli di commedie in cui nel nostro mondo avviene un fenomeno ‘impossibile’ – basti citare l’ormai classico Zelig o, tra i tanti recenti, i film scritti da Kaufman, come Essere John Malkovich o Eternal Sunshine of the Spotless Mind. Invece, per una commedia in cui nel nostro mondo un fenomeno ‘impossibile’ è relativamente normale, non avevo esempi precisi“.
“E forse proprio perché un equilibrio del genere non è facile da mantenere: non si poteva soltanto ridere dell’assurdità delle scomparse, perché i due personaggi erano anche due malati”.
“Così, occorreva stare abbastanza distanti da loro per poterne ridere, ma non troppo distanti per non ridurli a macchiette, al cui percorso intimo non avremmo prestato attenzione; al tempo stesso, bisognava stare attenti a non avvicinarsi troppo, oppure avremmo visto soltanto il loro dramma, di cui la scomparsa avrebbe finito con l’essere un mero accessorio accidentale”.