Premiato con l’Orso d’Argento per la Miglior Regia alla 66. Berlinale, il 20 aprile arriva al cinema Le Cose Che Verranno – L’Avenir, il film diretto da Mia Hansen-Løve e con protagonista la sempre strepitosa Isabelle Huppert.
Nathalie (Isabelle Huppert) insegna filosofia in un liceo di Parigi. Per lei la filosofia non è solo un lavoro, ma un vero e proprio stile di vita. Un tempo fervente sostenitrice di idee rivoluzionarie, ha convertito l’idealismo giovanile “nell’ ambizione, più modesta, di insegnare ai giovani a pensare con le proprie teste” e non esita a proporre ai suoi studenti testi filosofici che stimolino il confronto e la discussione. Sposata, due figli e una madre fragile che ha bisogno di continue attenzioni, Nathalie divide le sue giornate tra la famiglia e la sua dedizione al pensiero filosofico, in un contesto di apparente e rassicurante serenità.
Ma un giorno, improvvisamente, il suo mondo viene completamente stravolto: il marito le confessa di volerla lasciare per un’ altra donna, la mamma muore, i figli sono ormai cresciuti, e Nathalie si ritrova, suo malgrado, a confrontarsi con un’inaspettata libertà. Con il pragmatismo che la contraddistingue, la complicità intellettuale di un ex studente, e la compagnia di un gatto nero di nome Pandora, Nathalie deve ora reinventarsi una nuova vita.
Vi presentiamo ora un estratto dell’intervista rilasciata da Mia Hansen Løve.
I suoi film sembrano miscelare ritratti della società contemporanea con una esplorazione dell’ anima al fine di arrivare più lontano, film dopo film, nella descrizione di un’ interiorità.
Senz’ altro i miei film condividono tutti questo tipo di ricerca e dialogano l’ uno con l’ altro. Si tratta di incarnare un destino, cercare di dargli senso, senza necessariamente passare attraverso le parole. Cerco di raccontare una verità e di trovare una forma di pienezza, di compiutezza, anche senza che le storie debbano necessariamente finire bene. Questo è ciò che mi aspetto dal cinema.
Più che mai, ne Le Cose che Verranno – L’ Avenir, il destino dei Suoi personaggi non è scolpito nella pietra e Lei filma la vita come una eterna possibilità per ricominciare.
Ho un rapporto ambivalente con questa idea: come credere alla libertà e al destino allo stesso tempo? Ciò crea una tensione tra la convinzione che bisogna accettare di lasciarsi condurre dagli eventi e la possibilità di autodeterminarsi all’interno di questo movimento, una tensione che noi non possiamo controllare.
Le Cose che Verranno è il ritratto di una donna che insegna e ama profondamente il suo lavoro. Lei esplora un tema che viene poco utilizzato nel cinema: quello del pensiero.
Il destino di Nathalie e la sua forze di fronte alla rottura, è indissociabile dal suo rapporto con le idee, il loro insegnamento e la loro trasmissione. Non potevo avvicinarmi a ciò in modo aneddotico. Inoltre, ciò che ha reso ancora più forte il mio desiderio di filmare una professoressa di filosofia che è assorbita dal suo lavoro, è la mancanza di libertà del cinema nel rappresentare gli intellettuali o i processi contraddittori del pensiero. Ci sono pochi film dove apprendiamo quali giornali leggono i personaggi, a quali idee sono legati, i dibattiti politici che li animano. Ho sempre cercato di inserire i miei personaggi nel mondo ma Le Cose Che Verranno è stata per me l’ occasione di assumere pienamente la relazione con i libri, con il pensiero. E non si può ridurre ciò alla descrizione di un ambiente sociale. Si tratta anche di una forma di precisione che si può vedere come documentaristica ma anche come poetica: è toccante, per me, ascoltare il nome dei luoghi che attraversano i personaggi, cosi come quelli delle riviste che leggono o delle canzoni che ascoltano. È collegato al nostro bisogno di memoria, alla fragilità della vita e al desiderio di mantenerne le tracce.
Da dove viene Natalie? Come ha preso forma nella Sua immaginazione?
In parte viene dalla coppia dei miei genitori, dalla loro complicità intellettuale e dall’energia di mia madre. In secondo luogo c’è la brutalità delle rotture e la difficoltà per molte donne, a partire da una certa età, di sfuggire a una forma di solitudine, cosa che io come tutti, ho avuto occasione di osservare. Ma ho scritto il film pensando a Isabelle Huppert e dunque Nathalie è diventata l’ incontro tra ciò che è emerso dai miei ricordi e che ho visto e lei, Isabelle.
Spesso i personaggi sono definiti al cinema per la loro estrazione sociale. Qui si direbbe che lo sono per la loro biblioteca. Nathalie e il marito hanno un rapporto quasi biologico con i libri che possiedono, come se questi fossero la colonna vertebrale della loro esistenza.
Nell’ appartamento dove sono cresciuta, il lusso era la biblioteca. Credo che non potrei vivere in un luogo privo di libri e, nei miei film, ho sempre dedicato un’ attenzione particolare alle biblioteche. Non si tratta solo di mostrare che questi personaggi hanno un’ educazione, ma di ricercare il piacere nella scelta dei libri e degli editori. Una fila di libri di edizioni ricercate, tutte dello stesso colore, o una fila di tascabili e multicolorati, non raccontano la stessa cosa. Quando una biblioteca è “falsa” me ne accorgo subito. D’ altro canto è vero che, nei miei film, le persone leggono, vanno al cinema, dialogano con le opere di cui si nutrono…Come è il caso della maggior parte delle persone nella vita. Penso che, contrariamente a quanto sembrerebbe, le persone accordino più spazio nella loro vita all’ arte di quanto facciano i personaggi loro “socialmente equivalenti” al cinema.
Isabelle Huppert recita in numerosi film eppure riesce sempre a sorprenderci. Incarna totalmente i suoi personaggi, fin dall’ inizio, con il suo modo di occupare lo spazio, di discutere, di prendere, il sole, di riflettere…
A parte il fatto che la considero la più grande attrice francese, non potevo immaginare nessun altro per quel ruolo. Oltre alle qualità più conosciute del suo talento (raffinatezza, energia, humour, una certa ferocia ecc) pensavo anche a Isabelle Huppert cosi come l’ avevo incrociata fuori scena e che non si riduce ai ruoli cui siamo abituati a vederla. C’era qualcos’altro che mi interessava, una fragilità e una certa tranquillità, del tutto contraria a quello delle donne dure o borderline che spesso lei incarna. Mi interessava andare a ricercare questo e portarlo verso una forma di dolcezza, di tenerezza, se non, addirittura, di innnocenza.
La musica, come in ogni Suo film, costituisce qui una sorta di ossatura dell’opera. Il brano che chiude il film può essere interpretato da ciascuno come meglio crede. Vuol forse dire che un film non ha necessariamente una fine ma che continua dentro di noi?
C’è un’ ambivalenza che nasce dal mio rapporto con la vita e alla quale cerco di rimanere fedele. Mette fianco a fianco, dei sentimenti apparentemente opposti e li fa coesistere. Nell’ultima scena l’emozione prevalente è un senso di impotenza di fronte al tempo: la sensazione che non possiamo fare a meno di adeguarci al movimento che ci conduce alla nascita di una nuova vita e che bisogna accogliere un presente che assorbe tutto. E’ una forma di lucidità cui aspiro, pur trovandola crudele. Vorremmo che Nathalie facesse un nuovo incontro e si innamorasse, ma il film non mostra questo. E’ invece un bambino quello che alla fine lei tiene tra le braccia e la musica può essere percepita come una ninna nanna. Eppure è proprio una canzone d’ amore e si può anche pensare che sia rivolta a un uomo, all’uomo che Nathalie aspetta e che forse un giorno arriverà. È una canzone sensuale, racconta che il desiderio e la speranza, sono tanto irrefrenabili quanto il tempo è invincibile. È una lotta fra due forze, ed è forse in questa lotta che si trova lo strano equilibrio che permette a noi tutti di sentirci vivi.