Sarà stata l’infanzia da girovago, su e giù per gli Stati Uniti al seguito della mamma e della nonna (approdando definitivamente nel Minnesota), ma raccontare storie, per John Huston, era qualcosa di naturale. E che dire di quel profilo da pugile consumato (vinse un campionato dilettante di boxe alle superiori), fiero di incassare cazzotti e restituirli? Anche quello certamente contribuì (e ancora contribuisce) a ricreare l’immagine epica del cineasta dell’età d’oro di Hollywood.
John Marcellus Huston, nato nel Missouri esattamente 110 anni fa (5 agosto, 1906) e figlio d’arte (papà Walter era attore), iniziò a muovere i primi passi nel mondo del cinema degli anni ’20 (quelli di Valentino per intenderci e della nascita del divismo e dello star system), proprio come tessitore di storie, nelle vesti di sceneggiatore per Samuel Goldwyn. Ma tra la scrittura e la regia il passo fu breve.
Tant’è che dopo aver contribuito alla carriera di Bette Davis (con Jezabel, 1938) e di Humphrey Bogart (con Una Pallottola per Roy, 1941), gli venne affidata la macchina da presa (oltre alla sceneggiatura) per dirigere Il Mistero del Falco (1941). E Huston chiamò, come protagonista, Boogie e trasformò il film in un classico del genere noir. Poi arrivò la guerra e lui fu richiamato a girare film di propaganda. Peccato che questi documentari furono talmente realistici (non a caso Huston fu maestro del noir, un genere che prevede lo stile asciutto e crudo) che l’esercito, in alcuni casi, ne vietò la visone.
Dopo la parentesi bellica, arrivò il culmine del successo con Il Tesoro della Sierra Madre (1948) col quale Huston vinse un Oscar come miglior regista. Il secondo Oscar del film andò al padre Walter (che si era separato dalla madre quando John aveva tre anni), quale attore non protagonista. A questo lungometraggio, nel quale tre uomini, che conducono una vita ai margini della società, danno la caccia a un tesoro, foriero di riscatto, segue un altro classico: Giungla d’Asfalto (1950). Ancora un noir, una storia di rapinatori destinati a soccombere, schiacciati da una società nella quale non possono trovare spazio.
L’anno successivo, ecco un altro capolavoro: La Regina d’Africa (1951) con Katherine Hepburn (vincitrice di un Oscar) e Boogie, nei panni di un comandante di battello e gran bevitore, che fornisce le vettovaglie a due missionari in Africa. Come da tradizione, Huston raccontò di uomini e donne in cerca di sogni. Questa volta, al posto di mirabolanti tesori, c’è una nave cannoniera tedesca da affondare. E sempre a proposito di esistenze deviate, come non ricordare Gli Spostati (1961), ultimo film di Clark Gable che recitò al fianco di Montgomery Clift: due scapestrati, vestiti da cowboys, intenti a circuire l’ingenua Marilyn Monroe.
Nel 1972, dopo una parentesi non proprio indimenticabile in Europa alla corte di De Laurentiis (La Bibbia del 1966 fu un flop), Huston ritornò in Usa e lo fece per parlare di qualcosa che ben conosceva: il pugilato, raccontato anche questa volta dalla parte dei vinti, in Città Amara. Mentre in L’Uomo che Volle Farsi Re (1975, con Sean Connery e Michael Caine), i miraggi tornano a essere protagonisti. Un territorio montuoso nelle Indie britanniche è territorio di conquista per due massoni inglesi, che lo vorrebbero, quale loro regno personale.
Tratta invece il tema del riscatto uno dei suoi ultimi lavori: Fuga per la Vittoria (1981), dove va in scena una partita di calcio tra prigionieri e carcerieri (durante la seconda guerra mondiale). Qualche anno dopo, nel 1985, fece vincere un Oscar a sua figlia Angelica con L’Onore dei Prizzi, con Jack Nicholson.
Huston si spense nel 1987, lasciando in eredità la memoria di un cineasta capace di raccontare storie vere, autentiche, vissute non da divi o dive patinate, ma da esseri umani. A volte troppo ingombranti, altre volte troppo fragili, i protagonisti dei suoi film sfidarono le rigidità dello star system hollywoodiano. E in questo furono sognatori e ribelli, come John Huston, il loro creatore.
Tommaso Montagna