Il film
Avere cura della casa e piegarsi al dovere coniugale senza fiatare: è ciò che insegna con ardore Paulette Van Der Beck (Juliette Binoche) nella sua scuola per casalinghe. Quando improvvisamente si trova vedova e senza soldi, le sue certezze vacillano. Sarà per il ritorno del suo primo amore o per il vento di libertà del maggio ‘68? E se la brava moglie diventasse finalmente una donna libera?
Martin Provost
Vi presentiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Martin Provost.
Da dove viene l’idea de La Brava Moglie?
Il film è nato da un incontro. Un’estate ho affittato una casa nel Cotentin, penisola della Normandia, appartenente a una signora di 80 anni di nome Albane. Era una nobile, ma viveva da contadina, con i suoi animali. Abbiamo fatto amicizia e mi ha raccontato come avesse deciso, dopo la guerra, di non studiare, contro il parere dei genitori, perché preferiva frequentare la scuola per casalinghe, restando così con le sue amiche. Non sapevo esattamente cosa fosse una «scuola per casalinghe», ma sentendola parlare della sua esperienza ho visto sfilare delle immagini. Con la mia co-sceneggiatrice Séverine Werba ho immediatamente iniziato delle ricerche. Sì, c’è stata davvero un’epoca nella quale si insegnava alle ragazze a diventare delle spose perfette. Intorno a noi delle testimonianze dirette attestavano quell’epoca conclusa eppure non così lontana. Negli archivi dell’INA, Institut National de l’Audiovisuel, abbiamo anche scovato dei documentari sorprendenti su quelle scuole. Mi ricordo del mio stupore quando una presentatrice del tempo, sosia di Denise Fabre, spiegava molto seriamente che una stiratrice degna di quel nome non poteva terminare i due anni d’istruzione se non stirando la camicia del marito, consacrandola così in brava moglie.
Ricordo che mia madre esisteva soltanto in quanto moglie. Ed essere una «brava moglie» significava prima di tutto rinunciare a se stessa. Ciò nonostante, un giorno è stato mio padre, quando avevo 16 anni, a regalarmi Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke, di cui un passaggio mi è tornato alla mente mentre giravo La Brava Moglie: «Per quell’umanità che ha cresciuto la donna nel dolore e nell’umiliazione verrà il giorno in cui la donna spezzerà le catene della sua condizione sociale. E gli uomini che non sentiranno arrivare quel giorno saranno sorpresi e vinti». Risale al 1904. Siamo in piena attualità.
Tutti i suoi film parlano di emancipazione femminile…
Senza dubbio ciò proviene dalla mia storia poiché mi sono opposto violentemente a mio padre, per il quale la dominazione maschile era legittima. Tale opposizione mi ha anche spinto a lasciare la mia famiglia quando ero molto giovane e a fare i film che faccio. Questo è certamente il film che più mi assomiglia. Riunisce tutti gli altri. È il mio film più libero, ma forse anche, e contrariamente alle apparenze, il più impegnato. Quando ho realizzato Séraphine, mi ricordo di una discussione con un’amica che mi rimproverava la mia mancanza di impegno politico. Le avevo risposto che fare un film su una donna delle pulizie che si dedica alla pittura verso e contro tutti era il mio modo di impegnarmi. Quando uscì il film successivo, Où va la nuit, fui stupito di constatare fino a che punto fare un film su una donna picchiata che uccide il marito fosse ancora disturbante. Tutti questi personaggi femminili sono raggiunti da un bisogno di libertà che si impone loro come l’unica strada da seguire: quella dell’emancipazione.
Perché ha situato la storia in una stagione cerniera, quella del 1967-‘68?
Perché dopo il 1970-’71 tutte le scuole per casalinghe erano scomparse. E fino a quel momento ce n’erano tantissime. Grandi, piccole, qualcuna più borghese, ma soprattutto quelle chiamate rurali, poiché il trenta per cento della Francia era ancora rurale. È un dato molto importante. C’era Parigi, e poi la provincia. Il maggio ‘68 ha mandato tutto in frantumi: è stato il punto di partenza di una formidabile presa di coscienza che avrebbe accelerato il movimento di emancipazione delle donne.
Sapeva fin da subito che il film sarebbe stato una commedia?
Sì. Perché l’immaginario veicolato da quelle scuole è allo stesso tempo infinitamente bizzarro e spaventoso. Racconta tutta un’epoca. Volevo che il film fosse molto stilizzato, con dei dialoghi cesellati, un ritmo sostenuto, dell’emozione. Che fosse pieno di quell’energia incredibile che si è liberata con il ‘68.
Nel film ci sono tutti i segni dell’epoca…
Adamo, Joe Dassin, Menie Grégoire, Guy Lux e Anne-Marie Peysson. Il grande divario tra Parigi e la provincia. Nella mia gioventù Parigi incarnava il sogno assoluto. La rapidità dei trasporti e dei mezzi di comunicazione ha cambiato le prospettive. D’altronde non si parla più di province ma di regioni. Per Séverine abbiamo pensato alla svelta all’Alsazia in quanto è una regione che ha patito molto la Seconda Guerra Mondiale. Una regione remota, selvaggia, come lo era la Bretagna della mia infanzia.
Ha pensato a Juliette Binoche fin da subito?
Ho scritto il ruolo di Paulette per Juliette. Desideravo molto lavorare con lei. È un’attrice incredibile, in costante ricerca, capace di prendere tutti i rischi. Ha il desiderio profondo di superarsi, non avevo alcun dubbio che sarebbe stata una Paulette ideale. Conoscevo inoltre la sua passione per la danza e sapevo che avrebbe potuto cantare. Sul set è di una sincerità e generosità assolute. Sempre attenta, concentrata, disponibile. Ed è incredibilmente concreta. Nel film possiede una comicità irresistibile. È talmente raro essere capaci di passare così velocemente dalla risata alle lacrime.