Michele Riondino e Isabella Ragonese, dieci anni dopo Dieci Inverni, si sono ritrovati sul set di La Guerra è Finita, la serie scritta da Sandro Petraglia e diretta da Michele Soavi che andrà in onda in Prima Serata per quattro lunedì consecutivi (quattro puntate) su Rai Uno, dal 13 gennaio al 3 febbraio. La serie inizia poco dopo la Liberazione, nei mesi in cui i sopravvissuti alle deportazioni tornano a casa. Tra questi, anche chi non troverà più nessuna famiglia ad attenderlo: bambini, bambine e adolescenti che hanno visto e vissuto l’orrore – allora ancora nascosto e indicibile – dei campi di sterminio. Questa storia parla di loro e di alcuni adulti coraggiosi che aiutano i ragazzi a riemergere lentamente alla vita, in un luogo improvvisato e privo di risorse, sullo sfondo di un’Italia provata, miserabile, ridotta in macerie.
La Guerra è Finita
I protagonisti adulti si chiamano Davide (Michele Riondino) e Giulia (Isabella Ragonese). Davide era lontano da casa quando sua moglie e suo figlio sono stati presi, avviati ai treni e spariti nel nulla – cosa che non riesce a perdonarsi. Ha partecipato alla Resistenza, ma ora tutte le sue forze sono concentrate nella loro disperata ricerca. Giulia è figlia di un imprenditore che ha collaborato con i nazisti e da poco è stato arrestato e condotto in carcere. Le strade di Davide e di Giulia si incrociano per caso, quando ambedue si trovano alle prese con alcuni bambini e ragazzi, reduci dai campi, che non sanno da chi andare, cosa fare, dove trovare un rifugio.
Aiutati da Ben (Valerio Binasco), un ex ufficiale della Brigata Ebraica che ha rinunciato a rientrare in Palestina per dare una mano a quanti vorranno seguirlo nella nuova patria, Davide e Giulia occupano una tenuta agricola abbandonata dove, in una piccola scuola rurale, insegnava un tempo la giovane moglie di Davide. Qui, passo dopo passo, con pochissimi aiuti dall’esterno, bambini e ragazzi italiani e stranieri riscoprono il rispetto reciproco, la solidarietà, la voglia di giocare, studiare, lavorare, amare. E raccontare – quasi sommessamente, con dolore – la loro perduta umanità. Le età sono le più diverse. E così le provenienze, le rabbie, le disperazioni e i sogni.
C’è Gabriel (Federico Cesari), che era orfano già da prima della guerra, ed è riuscito a fuggire da un campo di concentramento per poi essere raccolto e salvato dai partigiani polacchi. C’è Miriam (Juju Di Domenico), che un tempo suonava il piano e ora non sa o non vuole più farlo. C’è Sara (Carolina Sala) che detesta il Paese che le ha portato via il padre, la madre e i suoi fratelli con le Leggi Razziali e non vede l’ora di andarsene in Palestina. Infine c’è Mattia (Carmine Buschini), che non viene dai campi, ma è solo un ragazzo che dà una mano nella tenuta, nascondendo però un recente passato in cui è stato nelle milizie repubblichine, senza neanche sapere bene quello che faceva.
Ci sono poi i bambini più piccoli, come Giovanni (Augusto Grillone) che non riesce più a parlare dopo le atrocità che ha visto e si limita a disegnare. E i piccolissimi, come Ninnina, quattro anni, che ha anche lei un numero tatuato sul braccio. Nello scorrere del racconto, ognuno va incontro ai propri fantasmi, alle proprie paure e desideri, che finalmente potranno cominciare a prendere corpo. Ma per andare avanti dovranno fare i conti con il passato e ritrovare il senso delle parole e della testimonianza. E, nel giorno in cui la radio annuncia la sconfitta della monarchia e la nascita della nuova Italia repubblicana, Davide può finalmente rinunciare alle armi e riconciliarsi con se stesso e il mondo. È un luminoso giorno del giugno 1946 quello in cui, per lui e per il Paese, la guerra sarà davvero finita.
Sandro Petraglia racconta…
“Ho scritto questa storia mosso da un’emozione provata alcuni anni fa, leggendo una delle prime pagine del romanzo La Tregua di Primo Levi. Ecco, il passo di Levi è questo:
“I bambini erano a Birkenau come uccelli di passo: dopo pochi giorni, erano trasferiti al Block delle esperienze o direttamente alle camere a gas… Hurbinek era un nulla, un figlio della morte… Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva… Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero, Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza‐nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento”.
È una di quelle pagine che, come certe volte succede, lavorano dentro, si vanno a nascondere da qualche parte, e restano lì. Tre anni fa questa pagina è riaffiorata. E nel lungo lavoro di stesura del copione, Hurbinek è stato per me una piccola guida silenziosa“.
Michele Soavi racconta…
“La Memoria, se non la racconti non esiste. Questa volta il mio lavoro non è stato quello di “divertirsi” a intrattenere il pubblico con la suspense, scene d’azione e vari trucchi del mestiere di regista, ma quello di raccontare la cronaca come fossi il testimone di una storia esistita veramente, come affiorassero scene da un libro di ricordi. Ho pianto tantissimo leggendo le sceneggiature e la storia mi ha fatto tanto pensare al Re degli Elfi di J.W. von Goethe: un papà che corre galoppando all’impazzata in una notte tempestosa stringendo al petto il suo bambino nella speranza di riuscire a salvarlo. Ecco, raccontare quel raggio di speranza era il mio compito. Questa serie non vuole riaprire vecchie ferite ma incoraggiare a un risveglio e a porsi delle domande. E soprattutto per non dimenticare mai e dire al mondo mai più“.