Esce oggi nelle sale italiane Abacuc di Luca Ferri, un lungometraggio in bianco e nero, realizzato in Super 8, che in un intreccio fatto di richiami e citazioni, ruota intorno alla incredibile figura rappresentata dal protagonista, alter ego di un personaggio davvero esistente. Si tratta di Dario Bacis: 198 chili e 42 anni, uno sguardo fisso e glaciale ma allo stesso tempo intenso e umano.
Abacuc è un uomo di quasi 200 chili, che passa il suo tempo in una immobilità distaccata da qualsiasi emozione, si reca prevalentemente al cimitero, in parchi tematici dell’Italia in miniatura o vicino ad architetture utopiche. Vive in una casa ferroviera e non proferisce mai parola, l’unica voce che si sente è quella femminile e fuori campo che interviene quando, strappato per un momento alla sua solitudine catastrofica, Abacuc alza una cornetta telefonica con il filo staccato: la donna rimane celata, comunica tramite citazioni letterarie e si rivelerà un cul de sac come l’esistenza di Abacuc, perché è soltanto il suo sdoppiamento.
Vive all’interno di geometrie rigorose, la sua esistenza è una sorta di sinfonia inceppata: Abacuc è una marionetta senza spettatore, recita l’ultima pièce possibile. In quanto sopravvissuto alla catastrofe, che vive nel continuo inseguimento di nulla.
Abacuc è un film surreale, un musical, un film di fantascienza, forse un “fake remake” de L’Ultimo Uomo Sulla Terra. La concezione di questa pellicola è legata alla monumentalità delle rovine, come spiega Luca Ferri: “la rovina e il monumento sono condensati nello stesso corpo e nel medesimo sguardo. Un monumento non ai caduti ma ad un superstite”.
Così Abacuc è una marionetta senza spettatore: “recita l’ultima pièce possibile, memore delle macerie delle avanguardie, non voglio cadere sedotto dal nuovo classicismo camuffato da una parvenza di nuove vesti o storie”. Ecco così un film fermo, immobile e fotografico dove alla telecamera e alla narrazione non è più richiesto alcun movimento: “la realtà pre-esistente viene documentata senza pretesa di verità alcuna”.
Nel lungometraggio di Ferri, finzione e documentario “non si fondono e non si riconoscono, ma travalicano e sconfinano per incontrarsi in altri territori quali il teatro marionettistico, il teatro dell’assurdo e la fotografia”. È tutta una colossale farsa in cui la serietà e un severo rigore formale permettono al film di trattenersi dalla più sbracata ed evidente grottesca messinscena: “il grottesco non evapora e non svanisce, ma si cela nelle reiterate e composte azioni del protagonista, nel cimitero e nel medium cinematografico così come nella costante voce off di stampo citazionistico dove la citazione non è più simbolo o segno, ma evidente atto trattenuto di ricerca della novità”.
Abacuc è riconducibile dal punto di vista pittorico a Piero della Francesca per lo sguardo ieratico ed a George Grosz e Otto Dix per la sua costruzione di “corpo”: “è vittima di telefonate citazioniste essendo lui a sua volta una non richiesta e sgradita citazione”. L’idea di cinema di Luca Ferri è infatti profondamente legata “ad un’idea estetica, dove ogni inquadratura viene trattata come se fosse “un personaggio” e dove gli elementi rappresentati devono trovare un preciso equilibro armonico”. Quest’armonia della forma “deve necessariamente essere in conflitto con la severità grottesca degli avvenimenti sopra citati”.
La storia di Abacuc è la storia del suo sguardo e del paesaggio che vive, per questo il film è da considerarsi di natura bipartitica “perché in esso s’inseriscono le composizioni “a motivetto” appositamente registrate dal compositore Dario Agazzi, il quale da sempre lavora su partiture calligrafiche e volutamente inceppate, creando enormi nastri magnetici e bobine analogiche contenenti eterne variazioni della medesima sinfonia”.
In questo lavoro la “materia” della pellicola, la storia narrata e l’audio “sono la medesima parte di un corpo, un corpo che ci spaventa perché rimanda ad un’immagine che non vogliamo guardare essendo troppo simile a quello che mai vorremmo dire di noi”.
In conclusione, il regista descrive così il suo film: “Abacuc è il mio ecce homo, un individuo capace di condensare in sé il senso stesso del film: una riflessione sulla condizione del cinema come mezzo espressivo. In quanto sopravvissuto alla catastrofe, che vive nel continuo inseguimento di nulla”.
“Abacuc rappresenta il bisogno dell’arte cinematografica di autoestinguersi e implodere in sé stessa”.
Luca Ferri