Presentato in anteprima al 39° Torino Film Festival, il 14 aprile uscirà nelle nostre sale Memory Box, il nuovo film diretto da Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, una pellicola che tratta dalle esperienze personali dei due registi e che racconta in modo insolito e poetico la guerra civile che imperversò a Beirut negli anni Ottanta.
Il film
Montréal. Il giorno di Natale Maia (Rim Turki) e la figlia Alex (Paloma Vauthier) ricevono un misterioso pacco proveniente da Beirut. Contiene quaderni, cassette e fotografie, un’intera corrispondenza che Maia, dai 13 ai 18 anni (da piccola, interpretata da Manal Issa), ha spedito da Beirut alla sua migliore amica rifugiatasi a Parigi per fuggire dalla guerra civile. Maia rifiuta di affrontare quel passato, ma Alex vi si immerge di nascosto. Scopre così, tra fantasmi e realtà, l’adolescenza tumultuosa e appassionata della madre durante gli anni Ottanta e dei segreti ben custoditi.
Joana Hadjithomas e Khalil Joreige
Vi riportiamo di seguito due domande alle quali hanno risposto i registi del film, Joana Hadjithomas e Khalil Joreige.
Nel film circolano le epoche, le generazioni, ma anche le tecnologie. Il passaggio del tempo si avverte tanto nella narrazione, in ciò che i personaggi vivono da un’epoca all’altra, quanto nella materia stessa del film o della fotografia. Parlateci del vostro rapporto con le immagini.
KJ – Non siamo affatto nostalgici di quell’epoca, ma volevamo vedere come la materialità di quelle immagini, che aveva funzionato per noi, avrebbe funzionato oggi, diversamente, per la generazione di nostra figlia, e per il personaggio di Alex. Senza essere moralisti nei confronti di Internet o dei canali social, ci sembrava interessante comparare le epoche. Possiedo circa 60.000 negativi accumulati in venticinque anni di pratica fotografica. Nostra figlia, in sei mesi, ha fatto 50.000 foto con il suo telefono! Chiaramente, non si tratta dello stesso genere di fotografie, ma anch’esse costituiscono un diario. Questo rapporto con le immagini attraverso il tempo modifica, per esempio, la relazione tra pubblico e privato, tra il corpo sociale e il corpo intimo.
JH – Nel film le fotografie sono essenziali, costituiscono quasi un film nel film. Avevamo altresì voglia di far vedere, al cinema, una storia della fotografia analogica, che quella materia fotografica fosse rilavorata a partire dalle copie a contatto, dalle Polaroid, dai Super 8, dai film latenti di quel periodo e anche da cose da noi girate o fotografate ma mai mostrate. Rileggere i miei quaderni ci ha permesso di comprendere il rapporto che nostra figlia intrattiene con il suo smartphone. Da adolescente, anch’io, in modo analogo, raccontavo la mia vita nei più minuscoli dettagli. Il film mette in scena lo status delle immagini e dei documenti. Da una parte ci sono i quaderni, le cassette, le fotografie di Maia con i loro segreti e non-detti, ma anche con le inesattezze della memoria; dall’altra c’è il rapporto tecnologico di Alex con le reti sociali, Facebook, WhatsApp, la saturazione delle informazioni, la comunicazione e lo scambio, l’immediatezza e la virtualità. Oggi, la sovrabbondanza di immagini e informazioni fa sì che un tale flusso non possa essere trattato e, curiosamente, equivalga all’oblio. Le gallerie d’immagini dei nostri smartphone evocano divisioni di schermi, split-screen, che il film esplora e che sono essenziali allo sviluppo dell’immaginario di Alex. Lei finisce così per seguire la storia della madre, da un quaderno all’altro, da una cassetta alla successiva, come una serie, una saga della quale diventa del tutto dipendente. Si immerge talmente nel passato della madre che non vive più il suo presente e, poco a poco, si allontana dagli amici. Si perde in diverse temporalità.
Il gioco libero con i livelli delle immagini e dei suoni è il cuore di tutto il vostro lavoro, compreso questo film che sembra riassumere ogni elemento.
JH – Non amiamo né frontiere né definizioni. Aspiriamo a una grande libertà, alla possibilità di poter muoversi facendo film per il cinema, documentari, video d’arte, installazioni fotografiche, performances, sculture… Le scelte dipendono davvero dal nostro interesse, dalla nostra ispirazione, dalla nostra ricerca… In Memory Box abbiamo cercato di trasformare le nostre ricerche artistiche e formali in qualcosa di cinematografico e di accessibile, qualcosa di piacevole per lo spettatore.
KJ – Il film incarna la libertà così come una certa idea di artigianato. Non volevamo che avesse un’estetica da «effetti speciali». Ci piace il lato artistico, di ricerca. E auspichiamo che tale ricerca visiva apra delle prospettive emozionali forti. La fotografia in pellicola, la copia a contatto, alimenta l’immaginario di Alex e la aiuta a ricostruire e immaginare in modo fantasioso, inventivo, il Libano, gli anni Ottanta, la quotidianità della guerra o l’appassionata storia d’amore di Maia e Raja. Abbiamo ritagliato delle fotografie, bruciato dei fotogrammi, lavorato sul fuori campo che diventa quello della memoria come quando Alex immagina, partendo da una foto, una scena della quale conosce solo una parte del contesto; il seguito quindi non può che essere nero perché lei non ha più alcun riferimento.