La Ripley’s Film, in collaborazione con al Viggo, ha dato vita al progetto Omaggio a Tati, un’iniziativa che riporta al cinema – nelle versioni volute dal regista e restaurate dalla Les Films de Mon Oncle – quattro capolavori di Jacques Tati, indimenticabile artista visionario, un artigiano che, riallacciandosi alla tradizione della slapstick comedy e utilizzando la moderna tecnologia cinematografica, ha dato vita ad uno spettacolo visivo senza eguali. Ad aprire oggi l’omaggio sarà Mon Oncle, film premiato con il Grand Prix a Cannes nel 1958 e con l’Oscar come Miglior Film Straniero nel 1959. I prossimi titoli saranno: Play Time (14 giugno), Les Vacances de Monsieur Hulot (20 giugno) e Jour de Fete (27 giugno).
Mon Oncle è il film più esilarante e colorato di Jacques Tati – che potremo vedere nella versione francese (ne esiste una anche in inglese che Tati approntò appositamente per il mercato inglese) – che mette a confronto due mondi completamente diversi.
Il piccolo Gérard è diviso tra la monotonia della casa ultramoderna dei ricchi genitori e il calore del quartiere popolare dello zio Hulot (Jacques Tati). Sorella e cognato cercano di inglobare lo stralunato parente nell’ordine della loro vita. I tentativi di organizzare la vita del signor Hulot si rivelano disastrosi. Le disgraziate iniziative di Hulot costringono il cognato a mandarlo a cercar fortuna altrove. Quando Hulot è partito gli Arpel si rendono però conto che la sua presenza portava un po’ di allegria nella loro vita troppo ben organizzata.
Vi presentiamo ora l’analisi del film realizzata da Stéfane Gaudet.
Integrazione – Mon Oncle è apparentemente il film di Tati con la storia più classica. Sembra emergere un filo conduttore, legato al desiderio della società, rappresentata dagli Arpel, d’integrare Hulot, di permettergli di farsi una posizione e di avere una casa. Poiché, pensano, che Hulot non sia mai al suo posto. Forse occorre aiutarlo a mettersi in riga a trovare quello che fa per lui e dargli il buon esempio. Infatti, sembra sempre un niente di troppo. Contrariamente all’universo di Hulot, il mondo degli Arpel è quello della misura e del controllo. Per tenerlo sotto il loro controllo, il signor Arpel cerca per Hulot un lavoro nella sua azienda.
Anarchia – Ciò che testimonia al meglio questa ossessione per il controllo sono i soffi e i flussi che attraversano il film. Flusso e ritmo a scatti regolari. A pose predefinite per gli Arpel, maestri del telecomando. E per Hulot escrescenze impreviste. Flusso e reflusso e sfumature anarchiche che scimmiottano la regolarità metronomica del mondo moderno. Ecco dunque un rumore incongruo, dissonante o stranamente ridondante per distrarre l’attenzione, punire uomini troppo sicuri di sé e perturbare appena l’ordine fin troppo serio di un mondo piatto e insipido. Hulot, cui il mondo sfugge, come lui sfugge al mondo, trasforma un tubo rosso infinito in una protuberanza grottesca, scompaginando i piani della sua famiglia e della società, come pure le sceneggiature del cinema dominante.
I Due Mondi – Mon Oncle stabilisce due poli architettonici, geografici, temporali, cromatici, musicali e sociologici, mettendo a confronto il vecchio e accogliente quartiere di Saint-Maur-des-Fossés dove abita il signor Hulot, che, come il paese di Jour de fête, rappresenta un mondo che sta scomparendo, e la zona residenziale, fredda e moderna, dove vivono i nuovi ricchi, come gli Arpel. A fare da collegamento, dei cani randagi in cerca di cibo e senza apparente riparo che accettano di condividere la loro passeggiata con il cane di razza della dimora borghese. “I due mondi in contrapposizione sono quello di 20 anni fa e quello in cui vivremo fra 20 anni“, scriveva François Truffaut su “Arts” nel 1958. Al grottesco pesce che sputa quando si oltrepassa il cancello del giardino degli Arpel risponde il meraviglioso canarino che canta quando si apre la finestra della casa di Hulot.
Logica – Tragitti assurdi, fatti di rigidità geometrica a casa degli Arpel, dove inopportune linee rette e arbitrarie linee curve competono in stupidità e complicano ogni tragitto. Perciò, la casa decrepita dove vive Hulot non ha nulla da invidiare a quella di sua sorella, in termini di logica. Che percorso insensato deve fare per raggiungere il suo appartamento sperduto sotto il tetto!
Contaminazioni – La festa in giardino, che introduce i concetti di nascosto e invisibile, corrisponde a una fase di moltiplicazione dell’azione all’interno del quadro in cui nulla sembra più essere sotto controllo, in cui bambini, cani e protagonista non tengono più conto dei tragitti prestabiliti. L’escamotage di un personaggio all’interno del terreno, che, come gli altri, contesta la gerarchizzazione dello spazio, rappresenta una provocazione estetica e politica. Il giardino degli Arpel per un istante viene contaminato dalla gioiosa anarchia che regna a St. Maur. Un’anarchia testimoniata da un brulicare, degno di Bruegel, di micro-storie falsamente indipendenti, secondo un principio che PlayTime amplifica e sistematizza.
Permesso di Abitare – “Quando ho costruito casa Arpel per Mon Oncle“, racconta Tati, “sono stato criticato per essere contro l’architettura moderna. Ma, guardando bene il film, si capisce che io non sono affatto contro l’architettura moderna, ma contro l’uso che questa coppia fa di questa casa! Una casa da far visitare, ma non da vivere. Potrei sbagliarmi, ma credo che si dovrebbe concedere non solo il permesso di costruire, ma anche il permesso di abitare!“.
In Controtempo - Hulot lavora due volte nei film di Tati: in Mon Oncle e in Trafic. La prima volta gli affidano un altro impiego e lo spediscono in provincia, la seconda viene scartato. Si presenta anche a due colloqui di lavoro: sempre in Mon oncle e, molto probabilmente, in PlayTime. Il primo incontro si conclude con un fallimento; il secondo dà luogo a un appuntamento mancato, lungamente posticipato, e che, alla fine, ha luogo senza che nessuno ne conosca l’esito. Basti dire che l’integrazione sociale del nostro eroe attraverso il lavoro è tutt’altro che facile. La scena della mancata assunzione sembra confermarlo. Il suo rapporto con il tempo è chiaramente sottolineato. Nel silenzio si ode il suono di un pendolo e la responsabile che riceve Hulot usa solo vocaboli relativi al tempo. Il significato di quest’insistenza è semplice: si tratta, in un certo senso, di cronometrare quanto tempo Hulot, il disadattato, resisterà in quell’azienda in cui non ha chiesto personalmente di entrare e il cui spirito è, a priori, a lui completamente estraneo. Sarà resistito in quell’ufficio due minuti.
Getti d’Acqua! – La prima traccia del progetto della fontana è una cartolina scoperta negli archivi di Jacques Lagrange. Contro ogni aspettativa, rappresenta dei cigni. L’idea sottolinea il parallelo tra gli uccelli di metallo di villa Arpel e il canarino vero a casa di Hulot. Gli uni sputano fuori l’acqua, l’altro libera il suo canto. Ma Lagrange suggerisce a Tati di optare per un altro animale: un pesce, che rafforza il contrasto verticale tra il cielo e l’acqua, consentendo di tessere la metafora acquatica rappresentata dai tubi, dalla balena e dai piedi nella vasca dopo aver confuso le ninfee con i cerchi del sentiero. “Sentirsi come un pesce in acqua“, cosa potrebbe dunque significare la frase coniata in immagini: come un pesce all’aria fresca che sputa acqua? Per realizzarla, Tati e Lagrange hanno invertito il contenitore, l’acqua, e il contenuto, il pesce, come nella scena in cui Hulot e i suoi compagni si sforzano invano per fare un gesto contro natura, cioè annegare il tubo deformato. A differenza della balena di Gérard, che espelle naturalmente il liquido, l’animale eretto nel giardino artificiale degli Arpel rigetta l’elemento che la sua stessa esistenza richiede. Ma anche la sorella e il cognato di Hulot non sono lontani dal rifiutare il loro ambiente naturale.
Plastica – L’uso della plastica si ricollega alla definizione proposta da Roland Barthes in Miti d’Oggi un anno prima dell’uscita di Mon Oncle: “Null’altro che un percorso, a malapena sorvegliato da un dipendente col berretto, mezzo dio e mezzo robot“. Hulot si addormenta, quasi incoraggiato dal respiro regolare della macchina, fino a quando questa non va in tilt. La plastica rivela quindi il suo “fregolismo“, come direbbe Barthes, come se le figure fantasmagoriche nate dal materiale fossero state concepite dal sogno dell’uomo. Il tubo si trasforma quindi in un serpente gigantesco o un drago che, come un mostro di Goya, nato dal sonno della ragione, fischia e s’insinua fino a costringere il sognatore ormai desto a combattere contro di esso con le proprie mani.
Tutto Comunica – La signora Arpel scompare a favore del suo aspirapolvere, solo in mezzo al salotto. La separazione tra l’accessorio e chi di solito lo utilizza rimarca la quasi identificazione da parte del bambino tra questo rumore meccanico e sua madre. E se l’aspirapolvere avesse addirittura battuto la sua condottiera? E se l’oggetto si fosse liberato e avesse inghiottito la sua proprietaria? Quanto al rumore degli elettrodomestici, tanto quelli della cucina, quanto quelli del bagno, rendono impossibile non solo la comunicazione tra la coppia, ma anche la consapevolezza della presenza dell’altro. “Tutto comunica“, dice due volte la signora Arpel quando mostra la casa alle amiche. Ma si riferisce all’architettura. Infatti, per quanto riguarda la sua famigliola, i tre abitanti di questa casa moderna non riescono né a parlarsi né a sentirsi e, a volte, nemmeno a vedersi.
Attraverso una comicità elegante e irresistibile, il regista francese in Mon Oncle (terza opera da regista) svela le contraddizioni di una società rigida e “di plastica” , e la necessità del gioco come unica via di fuga. Tati definisce il suo stile inconfondibile nella cura maniacale della scenografia e del suono come veri protagonisti della messa in scena. Uno dei film preferiti in assoluto di David Lynch, film gioiello che posiziona il genio di Tati direttamente tra Charlie Chaplin e Buster Keaton.
“Mon Oncle mette al confronto due mondi opposti, da una parte quello del successo, in cui tutto è nuovo, ordinato, e dall’altra quello di Hulot dove rimane ancora un po’ di fantasia, quella che rende possibile la vita umana”.
Jacques Tati