Il 16 maggio 1915, esattamente un secolo fa, veniva al mondo un uomo che ha scritto la storia del cinema italiano e mondiale: Mario Monicelli. Un regista unico e indimenticabile, un autore geniale capace di creare uno stile e un genere, quello della commedia all’italiana, che rimarrà per sempre impresso nel cuore di tutti gli appassionati di cinema. Vincitore di numerosissimi premi, Monicelli è stato candidato sei volte al Premio Oscar per il Miglior Film Straniero, dando lustro e prestigio al nostro cinema anche oltre confine. La Mostra del Cinema di Venezia nel 1991 lo ha omaggiato conferendogli il Leone d’Oro alla Carriera, esattamente 32 anni dopo il Leone d’Oro per La Grande Guerra. Per celebrarlo, abbiamo intervistato il Professor Roberto Bosio autore di Muoiono Solo gli Stronzi – La Straordinaria Vita di Mario Monicelli, la prima biografia che è stata scritta sul cineasta toscano, edita nel 2014 da Bradipolibri.
16 maggio 1915, una data storica: cent’anni fa nasceva Mario Monicelli, un regista geniale. Come si può definire questo grande Uomo che ha cambiato il cinema?
Inizio subito dicendo che a Mario Monicelli non piaceva essere definito. Per questo spesso si prendeva in giro e prendeva in giro l’esecutore. Non amava essere chiamato maestro né in altri modi che sottolineassero quanto aveva fatto perché, come racconta la sua amica Suso Cecchi D’Amico, lui era “il re dell’understatement, che io chiamo pudore, e nessun regista-autore al mondo ne ha mai avuto tanto nel proprio lavoro. Monicelli si farebbe impiccare piuttosto che parlare di ‘ispirazione’, di ‘anima’, di ‘creatività’, e non direbbe ‘noi artisti’ neppure sotto tortura”. Se proprio si deve cercare un modo per definirlo, direi che il modo più corretto, penso che sia “padre della commedia all’italiana”, perché con due suoi film I Soliti Ignoti (1958) e Un Borghese Piccolo Piccolo (1977), segna l’inizio e la fine di uno dei periodi migliori del cinema italiano.
Settant’anni di cinema, settant’anni di Italia, tra la Seconda Grande Guerra e il Boom Economico. Com’era il Monicelli regista e testimone della nostra storia? Come ha saputo inquadrare la nostra società negli anni?
Mario Monicelli ha vissuto 95 anni molto intensi e per questo ha potuto assistere a quasi tutta la storia del Novecento italiano – lui raccontò di ricordarsi del corteo chiassoso per le vie della Capitale che aveva chiuso la Marcia su Roma, e che lui vide dal balcone di casa in via Nazionale del critico teatrale Silvio D’Amico (amico del padre e genitore di Suso Cecchi D’Amico, una delle più grandi sceneggiatrici del cinema italiano). Il suo essere stato parte di quasi tutto il Novecento non gli avrebbe permesso di essere “il padre della commedia all’italiana”, se lui e gli altri autori che hanno fatto grande il cinema di quegli anni, non avessero avuto uno sguardo caustico sulla realtà, e che si può leggere nei film di quegli anni, pellicole che hanno finito per “dare un’immagine dell’Italia e degli italiani agli italiani stessi” – la citazione ovviamente è dello stesso Monicelli. Nel corso dei decenni Monicelli ha saputo rappresentare con lucidità tutti i difetti degli italiani. Con il passare degli anni si può osservare che il suo sguardo perde di pietas. Il regista toscano finisce per pensare che la trasformazione della nostra società abbia provocato la perdita irreversibile delle nostre caratteristiche positive (ed ha in buona parte ragione)…
Il Monicelli uomo era invece molto riservato, come dice lei: “non si è mai lasciato conoscere, fedele alla sua idea che i sentimenti è meglio non manifestarli”. Come lo ha sottolineato nel testo questo suo lato caratteriale?
Facendo parlare i protagonisti di questa storia, come l’ultima compagna del regista, che raccontava che “Mario faceva il contrario dell’innamorato. Non mi ha mai detto ti amo, se non alle cinque del mattino, confidando nel mio sonno profondo. Arrivava a punte di cattiveria. Una volta sotto uno splendido cielo stellato chiese agli attori e alla sua troupe di esprimere un desiderio. Ma guai a dirlo, si raccomandò, perché se lo dite non s’avvera. Quando toccò il suo turno, scandì a voce alta: voglio vivere tutta la mia vita insieme a Chiara“.
Tornando al regista, quali sono stati secondo lei i film fondamentali all’interno della sua filmografia? Dove è riuscito a lasciare un segno indelebile?
La carriera di Mario Monicelli nel cinema inizia nel 1935 con I Ragazzi della Via Paal – che vince una sezione speciale del Festival di Venezia –, e l’ultimo film, Le Rose del Deserto è del 2006. In settant’anni dirige oltre sessanta film che hanno quasi sempre incontrato i gusti del pubblico e segnato la storia del cinema italiano. La mia scelta – ovviamente influenzata dai miei gusti – è di partire con I Soliti Ignoti (1958), per continuare con La Grande Guerra (1959), il primo film che rappresenta la prima guerra mondiale com’è veramente stata e non come la propaganda ce l’ha raccontata, e L’Armata Brancaleone (1966), un’altra operazione di grande coraggio e visionarietà che è stata possibile solo in quegli anni, perché accanto ad un regista come Mario Monicelli ci vuole uno scenografo come Piero Gherardi e un musicista come Carlo Rustichelli.
Un altro film da ricordare è Amici Miei (1975), un film che in Italia batte Lo Squalo di Steven Spielberg, insieme a Un Borghese Piccolo Piccolo (1977), uno dei film che segnano la fine della commedia all’italiana, ed infine Parenti Serpenti (1992), uno degli ultimi grandi esempi dello spirito caustico del toscanissimo Monicelli – anche se è nato a Roma e i suoi venivano dal mantovano. Il film non andò benissimo al botteghino, ma diventò comunque un film cult grazie alla diffusione delle Vhs.
Ha diretto tutti i mostri sacri del cinema italiano, da Sordi a Gassman, da Mastroianni a Tognazzi, dalla Cardinale alla Vitti, solo per citarne alcuni. Com’era sul set nel rapportarsi con i suoi attori?
Un vero monarca. La sua autorità sul set era indiscussa e se era necessario era pronto a rimarcare il suo primato, perché, come dice lui stesso, “gli attori sono come gli animali”, “se sentono che il domatore tentenna gli saltano addosso”, e quindi morde per primo. Sul regista toscano circolano storie leggendarie – che lui ovviamente non hai mai confermato né smentito – a proposito dei maltrattamenti che riserva agli attori. Si narra per esempio che abbia fatto appendere all’asta del microfono un osso per prendersi gioco di un’attrice che recitava come una cagna…Quel che è certo è che diversi attori hanno dovuto subire i suoi maltrattamenti: da Vittorio Gassman, che vuole tornare in Italia dopo qualche giorno di brutto tempo durante le riprese di Brancaleone alle Crociate, e viene trattato come un “borghesuccio” a cui mancano i ristoranti di Roma e piazza del Popolo, a Giuliana De Sio, che tenta di dare un parere al regista, ma non riesce nemmeno a finire la frase “Io penso…”, perché Monicelli le chiude la bocca con un “Tu non sei in grado di pensare!”, passando per Ugo Tognazzi, Alessandro Haber e Monica Vitti, che non vuole mettersi la parrucca di scena…
Secondo Michele Placido, le lavate di capo del maestro toscano sono anche un modo per dimostrare il suo affetto. C’è del vero: secondo Monicelli “gli attori son contenti di essere maltrattati”, “se li vuoi considerare trattali male” perché “hanno un animo femminile. Son come le donne”. E i maltrattamenti non finiscono sul set. Chi fa troppe domande sulle motivazioni del suo personaggio, sul modo in cui deve muoversi o sul perché si debba infilare un certo vestito viene etichettato per sempre. Su Lea Massari Mario Monicelli ha detto che in Italia lavorava poco perché rompeva i coglioni, e che invece, per lo stesso motivo, era molto richiesta in Francia…
Qual è stato il messaggio più importante lasciato da Monicelli? Oggi che il cinema (come la società) sta così velocemente e profondamente cambiando, quanto è importante ricordare la sua figura come punto di riferimento?
Mario Monicelli ha lasciato diversi messaggi che vale la pena di ricordare. Dal suo coraggio nelle piccole cose – per fare L’Armata Brancaleone accetta di essere pagato solo in proporzione agli incassi, e finisce per guadagnare più di quello che ha ricavato da ogni altro suo film – come nelle grandi cose – mi riferisco alla sua scelta di farla finita, al suo cercare sempre la verità – mentre tanti ci dicono solo quello che conviene loro. Il suo messaggio è importante anche per il cinema italiano, perché ha sempre raccontato che il miracolo avvenuto nel dopoguerra non è stato il frutto di un uomo solo al comando, o di pochi geni e tanti comprimari, ma di una comunità di persone che hanno creato insieme quello che è stato per anni il secondo cinema al mondo – e forse il primo. Un’altra sua lezione che vale la pena di ricordare è che il cinema “è un’arte minore applicata all’industria. Se non ha alle spalle un’industria che lo sorregga, il cinema non si può fare” (anche in questo caso i virgolettati sono del regista toscano). E noi “dalla fine della guerra agli anni Settanta” abbiamo avuto “un’industria abbastanza efficiente”. “Si facevano 250-300 film all’anno, e questo permetteva di far nascere attori, registi, sceneggiatori, truccatori, scenografi, costumisti… tutto il mondo di professionisti che permette di realizzare i film. Tant’è che tutti questi bravissimi professionisti sono andati negli Stati Uniti a insegnare agli statunitensi come si faceva cinema nel dopoguerra, perché il cinema americano era diventato vecchio: era fatto tutto nei teatri di posa, tutto finto…”.
Lei è stato il primo a scrivere una biografia dedicata a lui con Muoiono Solo gli Stronzi – La Straordinaria Vita di Mario Monicelli. Com’è nata l’idea del libro?
L’idea del libro è nata per caso. Una sera al cinema un amico si è ricordato che era l’anniversario della scomparsa del regista. Me ne ero completamente dimenticato e per questo decido di scrivere, su un blog per cui scrivevo all’epoca, un post per ricordare la sua figura. Mentre mi preparo, scopro che non era mai stata fatta una biografia del padre della commedia italiana. Mi è sembrato importante colmare questa lacuna e così ho cercato un editore che fosse interessato al progetto. Bradipolibri e Luca Turolla hanno subito appoggiato la mia idea.
Qual è il film di Monicelli a cui lei è più legato e perché.
La Grande Guerra. Avevo 19 anni e conoscevo poco o nulla di quel grande periodo del cinema italiano. Vedo quel film e rimango folgorato da Vittorio Gassman, Alberto Sordi e da Mario Monicelli. Da lì ho iniziato ad appassionarmi al cinema.
Intervista di Giacomo Aricò