Presentato in Concorso all’ultimo Festival di Cannes, giovedì 30 novembre esce al cinema Happy End, l’attesa nuova opera di Michael Haneke che sembra essere la prosecuzione dello straordinario Amour (2012, Palma d’Oro). Nuovamente protagonisti sono infatti ancora due mostri sacri del cinema, Isabelle Huppert e Jean-Louis Trintignant.
Pas des Calais (città nel Nord della Francia), spazio di transito per i rifugiati, fa da sfondo alla storia. In una sontuosa magione borghese la ricca famiglia Laurent vive la propria vita in modo anaffettivo e cinico, senza rendersi conto di non sapere più cosa conta veramente nella vita. Georges Laurent (Jean-Louis Trintignant) è il patriarca, fondatore di un’azienda di costruzioni con tanta voglia di uccidersi. Anne (Isabelle Huppert, foto copertina), è la sua figlia maggiore che segue gli affari di famiglia: ormai è lei la capofamiglia ormai, tra l’altro fidanzata con l’avvocato inglese (Toby Jones) chiamato a seguire le sorti della loro azienda di costruzioni.
Poi ci sono gli altri membri della famiglia: l’altro figlio Thomas (Mathieu Kassovitz), medico al secondo matrimonio e con una relazione clandestina, il figlio di Anne, Pierre (Franz Rogowski), trentenne problematico che anziché pensare al futuro dell’azienda di famiglia preferisce passare le notti ubriacandosi e combinare guai, l’adolescente Eve (Fantine Harduin), figlia di primo letto di Thomas, ora al seguito del padre a causa di una brutta malattia che ha colpito la mamma. Eve è una ragazzina silenziosa che esprime il suo disgusto filmando tutto, con la stessa lucida indifferenza.
Happy End è un film attuale e originale, rigoroso e spiazzante, in pieno “stile Haneke”. Al centro questa volta c’è la storia di una grande famiglia altoborghese che ha ormai perso i suoi valori. Specchio di una società votata alla falsità, all’egoismo e all’infelicità. Happy End è un film che immortala il declino e la morte (non solo simbolica) dell’alta borghesia europea, anche contrapponendola all’emergenza migratoria del nostro tempo: “ogni volta che voglio fare un film cerco nuovi argomenti – racconta Michael Haneke – e attraversando la vita con attenzione non potevo esimermi dal raccontare la società dei nostri giorni, del nostro modo di vivere in maniera autistica, quasi accecati”.
Anche in Happy End, il maestro austriaco si occupa dei comportamenti degli umani, ormai anestetizzati da tutto, incapaci di provare vere emozioni. È l’anima nera della borghesia, ormai incapace di sentire qualsiasi cosa, priva di ogni empatia, indifferente anche a se stessa. La famiglia borghese, ovvero la stessa protagonista-vittima di Funny Games, uscito vent’anni fa in Europa e dieci anni fa negli USA (nel remake, sempre da lui diretto). In questo nuovo film si fa un ulteriore salto temporale, dalla tv al palmare: “la nostra vita è radicalmente cambiata negli ultimi 20 anni con il proliferare dei social media – continua il regista – ed io non potevo far finta di niente”.
Il suo riferimento è alle molte immagini del film riprese attraverso lo smartphone di Eve, vero e proprio simbolo del film: “oggi come oggi siamo sommersi di informazioni, ma il paradosso è che ci rendono sempre più ciechi – conclude Michael Haneke – abbiamo l’illusione di saperne di più, ma in realtà non sappiamo niente. Crediamo di essere connessi con il mondo, ma tutte quelle informazioni ci toccano in superficie, non sono la realtà, ma un’illusione”.
“Oggi siamo bombardati da informazioni che ci toccano solo in superficie, senza andare mai ad incidere davvero sulla nostra vita”.
Michael Haneke