Provocatorio e sorprendente, giovedì 7 novembre arriva nei nostri cinema Parasite, il film diretto da Bong Joon-ho che ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes 2019, diventando il primo film sudcoreano ad aggiudicarsi il premio. La pellicola è stata inoltre selezionata per rappresentare la Corea del Sud ai premi Oscar 2020.
Il film
I quattro membri della famiglia di Ki-taek sono molto uniti, ma anche molto disoccupati, e hanno davanti a loro un futuro incerto. La speranza di un’entrata regolare si accende quando il figlio, Ki-woo, viene raccomandato da un amico, studente in una prestigiosa università, per un lavoro ben pagato come insegnante privato. Con sulle spalle il peso delle aspettative di tutta la famiglia, Ki-woo si presenta al colloquio dai Park. Arrivato a casa del signor Park, proprietario di una multinazionale informatica, Ki-woo incontra la bella figlia Yeon-kyo. Ma dopo il primo incontro fra le due famiglie, una serie inarrestabile di disavventure e incidenti giace in agguato.
Bong Joon-ho
Vi presentiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata da Bong Joon-ho.
Perché questo titolo, Parasite?
Per gente di diversa estrazione sociale vivere assieme nello stesso spazio non è semplice. Succede sempre più spesso in questo triste mondo che le relazioni umane basate sulla coesistenza o sulla simbiosi non reggano, e che un gruppo sia costretto ad instaurare una relazione parassitaria con un altro. In un mondo del genere, chi può puntare il dito contro una famiglia in difficoltà, intrappolata in una lotta per la sopravvivenza, e definirli tutti parassiti? Non erano parassiti all’inizio. Sono i nostri vicini di casa, amici e colleghi, spinti fino all’orlo del precipizio. Definirei il mio film una tragicommedia che rappresenta l’ironia, l’orrore e la tristezza che emergono dal voler vivere e prosperare in armonia con gli altri, salvo poi scontrarti con la realtà di come tutto questo sia impossibile da realizzare. È un titolo ironico che ha una connotazione confortante quasi piacevole. Come si può essere confortato da simili ricordi, provare nostalgia per un omicidio? È una cosa sbagliata?
Come definirebbe il genere di Parasite?
È una commedia umana, fortemente imbevuta di contemporaneità. Anche se il plot è composto da una serie di situazioni uniche e peculiari, è comunque una storia che potrebbe accadere nel mondo reale. Potrebbe far pensare ad un fatto di cronaca di cui hanno parlato i telegiornali o i social e che è stata trasposta sullo schermo. In questo senso è un dramma molto realistico. Ma non avrei nulla da obiettare se qualcuno volesse definirlo un crime, una commedia, un triste dramma sociale, o un thriller terrificante. Faccio sempre del mio meglio per ribaltare le aspettative degli spettatori e spero di esserci riuscito anche con Parasite.
Chi sono le famiglie al centro di Parasite?
Una famiglia di bassa estrazione sociale, che vive in uno squallido appartamento seminterrato, che aspirerebbe ad una vita normale, obiettivo che si rivela comunque difficile da raggiungere. Il padre ha alle spalle vari fallimenti lavorativi, la madre si è allenata per tutta la vita come atleta, ma non hai mai raggiunto il successo, e due figli, che nonostante i numerosi tentativi non sono mai riusciti a superare i test di accesso all’università. Al contrario la famiglia del Signor Park, che lavora come CEO in un’azienda informatica (non connessa con nessun gruppo d’affari coreano) è una famiglia in gamba, di nuovi ricchi. Il Signor Park è un maniaco del lavoro. C’è anche un’affascinante giovane moglie, una figlia deliziosa che frequenta il liceo e un figlio più piccolo. Potrebbe rappresentare il modello ideale di famiglia di quattro persone che appartiene alla moderna élite urbana.
Quale immagine della società contemporanea ha voluto restituirci attraverso questo film?
Penso che un modo di raccontare la progressiva polarizzazione e le diseguaglianze della nostra società sia la commedia amara. Viviamo in un’epoca in cui il capitalismo regna sovrano, e non abbiamo alternative. È così non solo in Corea, ma in tutto il mondo affrontiamo una situazione in cui i principi del capitalismo non possono essere ignorati. Nel mondo reale, i percorsi di una famiglia come quella composta dai nostri quattro protagonisti disoccupati e della famiglia Park non si incrocerebbero mai. L’unica possibilità di un incontro tra queste classi è un rapporto di lavoro, come quando qualcuno viene assunto come tutor o lavoratore domestico. In queste situazioni ci sono momenti in cui le due classi sociali sono così a stretto contatto da poter sentire l’uno il respiro dell’altro. In questo film anche se non c’è alcuna intenzione malevola né verso una parte né verso l’altra, le due classi sociali vengono trascinate in una situazione in cui anche il più piccolo passo falso può portare a fratture ed esplosioni. Nella società capitalista contemporanea ci sono ranghi e caste che sono invisibili ai nostri occhi. Le teniamo nascoste e lontane dalla vista, superficialmente si può pensare alle gerarchie di classe come ad una reliquia del passato, ma la realtà è che ci sono linee di separazione tra le classi sociali che non possono essere attraversate. Credo che questo film descriva le inevitabili fratture che si creano quando due classi sociali entrano in contatto nella società di oggi, sempre più polarizzata.