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Pena e fede, i sacerdoti dispersi ne Il Club di Pablo Larraín

Giovedì 25 febbraio arriva al cinema Il Club,  il film Orso d’Argento a Berlino nel 2015 diretto da Pablo Larraín. Già presentato alla 10. Festa del Cinema di Roma, il film è interpretato da Alfredo Castro, Roberto Farías, Antonia Zegers, Jaime Vadell, Alejandro Goic, Alejandro Sieverking, Marcelo Alonso, José Soza, Francisco Reyes.

La storia ruota attorno a quattro sacerdoti, che vivono insieme in una casa isolata in una piccola città sul mare. Ognuno di loro è stato inviato in questo luogo per cancellare i peccati commessi in passato. Vivono osservando un regime rigoroso sotto l’occhio vigile di una sorvegliante, quando la fragile stabilità della loro routine viene interrotta dall’arrivo di un quinto uomo, appena caduto in disgrazia, che porta con sé il suo passato oscuro.

Vi presentiamo ora di seguito tre domande a testa al regista Pablo Larraín, e agli attori, Alfedo Castro e Roberto Farias.

Da dove nasce l’idea del film?

Pablo Larraín – Sono sempre stato tormentato dal destino di quei sacerdoti che vengono rimossi dai loro incarichi dalla chiesa stessa, in circostanze completamente sconosciute e allontanati dall’opinione pubblica. Sono cresciuto in scuole cattoliche e ho incontrato diversi preti rispettabili che hanno lavorato e vissuto sulla base di ciò che definiscono “il cammino di santità”, cioè quei sacerdoti che osservano la parola di Dio e si comportano proprio come guide spirituali, uomini onesti che predicano attraverso i loro esempi. Ho anche incontrato sacerdoti che oggi sono in carcere, o sono sottoposti a giudizio per diversi tipi di reati. Infine sacerdoti che nessuno sa dove siano finiti, in qualche modo scomparsi. Questi sacerdoti che si sono persi, uomini di fede e leader spirituali, non rientrano più nella sfera di controllo della chiesa. Sacerdoti che sono stati condotti in case di ritiro in totale silenzio. Dove sono quei sacerdoti? Come vivono? Chi sono? Cosa fanno? Questo film parla di quei sacerdoti esiliati e, per questo motivo, questo film è il club dei sacerdoti dispersi.

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Come considera questo film nel Cile di oggi?

Alfredo Castro – Anche se il film non si colloca in un momento politico preciso – come accade nel caso di Tony Manero, Post Mortem, o NO – I Giorni dell’Arcobaleno dove lo sfondo e il contesto della dittatura sono prepotentemente presenti, in Il Club, Pablo Larraín insiste nell’affrontare un argomento che, a mio avviso, percorre tutti i suoi film e tutti i ruoli che ho avuto negli stessi: l’impunità. La società cilena si è fondata su una storia di potere e sottomissione, proprio come ogni altra società. Potenze economiche, sociali, politiche e religiose, ma in particolare, poteri che hanno inflitto grande violenza all’ombra del silenzio. Piccoli gruppi di persone, famiglie, e congregazioni hanno ricevuto l’impunità per le loro azioni, molto spesso atti criminali, coperti dalle loro reti di protezione. Questo diviene radicale in modo osceno durante la dittatura degli anni ‘70 e ‘80, quando questa impunità viene consacrata, sia nello smantellamento dello Stato Repubblicano attraverso l’usurpazione e la privatizzazione delle imprese, del sistema sanitario e dell’istruzione, sia nel trattamento crudele e criminale delle sue vittime e di tutti gli abusi contro i diritti umani e la dignità.

Tony Manero compie efferati crimini per un pavimento di vetro dove può esibirsi ballando come il suo mito, Tony Manero. Di fronte a un amore non corrisposto, Mario Cornejo in Post Mortem diventa anch’egli un assassino; entrambi i personaggi agiscono in totale impunità. E in NO – I Giorni dell’Arcobaleno, senza commettere alcun reato, Luis Guzmán diventa un fervente seguace della democrazia non appena trionfa il referendum, proprio dopo essere stato uno strenuo difensore nonchè collaboratore della dittatura, senza alcuna compromissione di carattere etico. In questa prospettiva, Il Club mi sembra un’osservazione realistica della contingenza politica, sociale e religiosa, e, soprattutto, della giustizia (o meglio, della sua mancanza). Reti di potere procedono indisturbate, nascoste nell’ombra e garantendo l’’impunità a determinati gruppi. Superando, nel suo trattamento estetico e nella sua struttura narrativa, il realismo più estremo, credo che questo film sia un’importante testimonianza di natura politica, poiché materializza un sogno comune: che questi promotori di fede, guardiani di una classe, vengano pubblicamente esposti al giudizio dei cittadini, un processo storico, per le azioni che hanno a lungo diretto, traendone beneficio ed essendo stati alimentati dalla stessa società civile; perché hanno dimenticato e non hanno mai conosciuto la nozione di reciprocità; né hanno rispettato il contratto sociale.

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Il suo personaggio, Sandokan, rappresenta una classe sociale e il luogo in cui la religione si concretizza in un modo molto particolare. Come ha affrontato il personaggio da questo punto di vista?

Roberto Farias – Sicuramente da una posizione precaria di non avere molte alternative per credere. Sandokan crede in qualcosa di concreto, che lo ha protetto, aiutato e contribuito alla sua crescita; qualcosa che gli ha permesso di sopravvivere. Vede la fede come una cosa concreta e funzionale, piuttosto che come qualcosa di filosofico o spirituale, dove è stato costretto a cedere inconsapevolmente a tutte le umiliazioni e i piaceri malati dei sacerdoti che lo proteggevano – in questo caso, Matias Lazcano. Qui, amore e fede sono confusi e sovrapposti. Ogni abuso, carezza o la penetrazione vengono visti soltanto come un’offerta a un Dio che protegge e mantiene il segreto. Senza dubbio, questa riflessione risponde ad un disegno di gran lunga maggiore rispetto all’intelletto di Sandokan. Egli è molto più elementare, viscerale, e privo di meccanismi o elementi che gli consentano di avere un’intelligenza emotiva con cui può cambiare il proprio destino. In altre parole, stiamo parlando di fede… e in nome della fede, di Dio, e della Chiesa, tutto è permesso.

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