Presentato in Concorso lo scorso anno alla 77. Mostra del Cinema di Venezia, giovedì 30 settembre uscirà nelle nostre sale Quo Vadis, Aida? il film scritto e diretto da Jasmila Žbanić che ha preso ispirazione dal libro Under the UN Flag di Hasan Nuhanović. La pellicola è una ricostruzione dei tragici eventi di Srebrenica del 1995, in cui oltre 8000 bosniaci musulmani furono trucidati dalle truppe serbe del generale Mladic. La regista di Sarajevo, già Orso d’Oro a Berlino nel 2006 con l’esordio Il segreto di Esma, racconta questa tragedia collettiva attraverso la storia di una donna – interpretata da Jasna Đuričićche – che tenta il tutto e per tutto per salvare la sua famiglia.
Il film
Bosnia, luglio 1995. Aida (Jasna Đuričić), è un’interprete che lavora con l’Organizzazione delle Nazioni Unite nella cittadina di Srebrenica. Quando l’esercito serbo occupa la città, la sua famiglia è tra le migliaia di cittadini che cercano rifugio nell’accampamento delle Nazioni Unite. Come persona informata sulle trattative, Aida ha accesso a informazioni cruciali per le quali è richiesto il suo ruolo di interprete. Cosa si profila all’orizzonte per la sua famiglia e la sua gente? La salvezza o la morte? Quali passi dovrà intraprendere?
Jasmila Žbanić
Riportiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata dalla regista Jasmila Žbanić.
Potrebbe parlarci di questa storia così drammatica e di che cosa ha significato per la sua vita? Dove si trovava nel 1995, quanti anni aveva all’epoca dei fatti di Srebrenica?
L’esecuzione sistematica degli oltre 8000 residenti della città di Srebrenica, nella Bosnia orientale, al termine della guerra di Bosnia (1992-95) ha rappresentato un grave trauma per tutti i bosniaci. Durante la guerra, Srebrenica fu dichiarata dall’ONU zona sicura per civili e residenti. Ma quando le forze serbo-bosniache invasero la città nel luglio del 1995, le truppe ONU che erano militarmente inferiori, chiesero aiuto all’ONU a New York. Ma la richiesta fu ignorata e insieme ad essa anche la popolazione. Srebrenica si trova a solo 40 minuti di aereo da Vienna, a meno di due ore da Berlino, e fa paura pensare che un tale orribile genocidio sia potuto accadere davanti agli occhi degli europei, proprio coloro che avevano ripetuto mille volte “non succederà più”. Il senso di sicurezza e la fiducia in istituzioni come l’ONU andarono perduti in un attimo, migliaia di persone morirono… e molte di più rimasero a piangerle. Personalmente, sento Srebrenica molto vicina perché sono sopravvissuta alla guerra a Sarajevo, anch’essa caduta sotto assedio, e avremmo potuto facilmente essere eliminati come gli abitanti di Srebrenica. Ho sempre pensato che qualcuno avrebbe dovuto fare un film su ciò che era accaduto, ma non ho mai pensato che quel qualcuno potessi essere io. Eppure quella storia mi ha sempre ossessionato. Ho letto tutto quello che ho potuto su Srebrenica e solo dopo aver realizzato quattro lungometraggi mi sono sentita finalmente pronta ad affrontare questo film, consapevole che avrei incontrato molti ostacoli.
Quali pensava potessero essere gli ostacoli?
La Bosnia è un Paese che produce solo un film l’anno. Il comparto cinematografico è pressoché inesistente, ed i fondi nazionali destinati al cinema sono molto ridotti. Per questo film abbiamo ricevuto solo il 5% del nostro budget dal Film Fund. La Bosnia prima faceva parte di una regione, insieme alla Jugoslavia, con un significativo comparto cinematografico, ma dopo la guerra tutto è andato in fumo, le relazioni con gli altri Paesi sono diventate quasi inesistenti e ci siamo trovati in un deserto, in quanto a produzione cinematografica. Quindi, sia dal punto di vista della produzione, ma anche per gli elevati standard che ci siamo prefissati, produrlo è stato molto difficile. Dopo la guerra e la divisione interna della Bosnia, Srebrenica è rimasta nella parte del Paese governata dai serbi bosniaci. Il nostro governo ha ancora molti politici di destra che si rifiutano di ammettere che si sia consumato un genocidio. Celebrano i criminali di guerra come fossero eroi rifiutando la decisione del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja che quello che è successo a Srebrenica costituisca un genocidio. Quindi un altro ostacolo enorme era rappresentato dalla politica. Ma c’erano anche molte persone che volevano che questo film fosse prodotto e che lo hanno sostenuto. Molti bosniaci ci hanno aiutato. Il film è coprodotto anche da nove Paesi europei che desideravano fortemente che questa storia fosse raccontata. Damir Ibrahimović, il nostro produttore principale, ha fatto tante scelte coraggiose e rischiose. Ci sono voluti anni per fare questo film. Ma lo abbiamo realizzato perché eravamo spinti dal bisogno di raccontare questa storia che crediamo non riguardi solo la Bosnia o i Balcani, ma tutti gli esseri umani e il modo in cui ci comportiamo gli uni con gli altri quando viene spezzato ogni vincolo di moralità, quando distruggiamo qualsiasi forma di umanità.
Come è nata l’idea di voler provare a realizzare un film su Srebrenica?
A quell’epoca leggevo molto, spesso di donne che raccontavano le storie dei figli, mariti, fratelli, padri che furono abbandonati dall’ONU e catturati dall’esercito serbo-bosniaco. Queste storie, che leggevo pubblicate tutti i giorni, ebbero un profondo impatto emotivo su di me. Oggi, 25 anni dopo, ci sono ancora 1700 persone disperse. La storia di Srebrenica è un dramma che mi ha assorbito completamente nel mio ruolo di regista.
Ci parli del personaggio di Aida.
Il suo personaggio è diviso a metà fra due mondi: lei è bosniaca, la sua famiglia si trova nella stessa situazione di trentamila altri residenti di Srebrenica ma allo stesso tempo lavora per l’ONU e questo rende ambigua la sua posizione. Aida ha fiducia nell’ONU. Crede che una base dell’ONU sia il posto più sicuro per la sua famiglia e sente di avere determinati privilegi perché lavora per questa organizzazione. Il film racconta il suo viaggio nel momento in cui tutto va irrimediabilmente male.
Che cosa mi può dire dell’ONU? L’organizzazione si trovava davvero in una situazione difficile perché nessuno la sosteneva. Che impressione vorrebbe che ne avesse chi vede il film?
Il film non è contro l’ONU né contro le idee sostenute da questa organizzazione. Al contrario. Il mio film ci mette in guardia sul fatto che dobbiamo migliorare e sostenere le nostre istituzioni. L’ONU fu bloccata politicamente da determinati uomini politici internazionali. Quella di abbandonare Srebrenica fu soprattutto una decisione politica. Si fece tutto il possibile per legare le mani all’ONU. Ma questo non esonera gli olandesi che avevano molti pregiudizi contro i musulmani bosniaci oltre che una visione piuttosto coloniale della gente in generale. Florence Hartmann lo spiega nel suo libro The Blood of Real-politik. Consiglio di leggere questo testo perché non parla solo di Srebrenica ma anche di come funziona il sistema politico. Se la situazione di Srebrenica si ripresentasse oggi, nel 2020, avrebbe lo stesso esito!
Un film sull’Olocausto può contare sul fatto che le persone siano bene informate sull’argomento quindi non c’è bisogno di spiegare nulla. Questo film non è un documentario. Qual è il cuore della sua storia?
Il cuore di questa storia è contenuto tutto nel dramma di Aida e nelle sue emozioni. Vorrei che le persone portassero con sé, dopo averlo visto, le sensazioni e le domande sollevate dal film. Se i soldati olandesi avessero avuto una maggiore empatia questa tragedia avrebbe avuto un esito così terribile? Veniamo sempre più spesso guidati da sentimenti di egoismo, il capitalismo ha bisogno di egoismo per sopravvivere ma sta portando il nostro mondo e tutti noi verso il disastro. Vorrei tanto che le persone potessero fare un parallelo fra la storia di Srebrenica e le loro vite e domandarsi chi sarebbe pronto ad aiutarli nei loro momenti difficili. Le cose sarebbero potute andare diversamente se solo avessimo avuto più solidarietà dagli altri? E c’è anche il trauma che trasferiamo ai nostri figli: sia ai figli dei persecutori che ai figli delle vittime. I persecutori trasferiscono un’enorme quantità di energia nella negazione di quanto hanno fatto tramandando alle generazioni successive il peso di un enorme fardello.