Un conflittuale rapporto padre-figlio è il tema di Un Ragazzo d’Oro, l’ultimo film diretto da Pupi Avati che sarà al cinema a partire da stasera. Protagonista è Riccardo Scamarcio, circondato da bravissime attrici come Cristiana Capotondi, la diva hollywoodiana Sharon Stone e una pagina del nostro cinema, Giovanna Ralli (nei panni di sua madre).
Il film presenta la storia di Davide Bias (Riccardo Scamarcio), un creativo pubblicitario figlio di uno sceneggiatore di film di serie B. Il suo sogno è quello di scrivere qualcosa di bello, di vero. Convive quotidianamente con ansia e insoddisfazione: per tenerle a bada, solo le pillole. Neanche la fidanzata Silvia (Cristiana Capotondi) sa come sollevarlo dalle sue insicurezze. Quando il padre improvvisamente muore, da Milano il giovane si trasferisce a Roma dove incontra la bellissima Ludovica (Sharon Stone), un’editrice interessata a pubblicare un libro autobiografico che il papà di Davide aveva intenzione di scrivere. Allora Il libro lo scrive lui stesso, come se a farlo fosse suo padre: questo lo aiuterà a riconciliarsi finalmente con la figura paterna, anche se le sue inquietudini sembrano rimanere irrisolte.
Vi riproponiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata da Pupi Avati:
Come è nata l’idea di questo film?
Da quando sono entrato nella mia piena maturità, il tema del rapporto padre/figlio incombe nella mia vita in modo sempre più pressante. È cresciuta infatti col tempo la curiosità su quale rapporto avrei avuto con mio padre se non fosse scomparso quando io ero solo un adolescente. Ho infatti ipotizzato in alcuni film diverse tipologie di padre (eccessivamente premuroso ne Il Papà di Giovanna, orrendo ne Il Figlio più Piccolo, totalmente assente ne La Cena per Farli Conoscere) e in questa circostanza, in Un Ragazzo d’Oro, a questo campionario ho deciso di aggiungere il padre fallito che fa gravare il suo fallimento sul figlio. Anche in questa circostanza ho attinto a quella parte irrealizzata e inespressa di me stesso, al peso che credo di avere imposto ai miei figli con il mio egoismo, egocentrismo e voracità, finendo per sottrarre loro molte di quelle che dovevano essere le opportunità della loro adolescenza e giovinezza.
Sono partito dalla consapevolezza che un padre frustrato che ambisce a porsi al centro dell’universo è ingombrante, toglie ossigeno, “intossica” l’intero contesto familiare. Ho deciso così di raccontare la storia di un figlio meraviglioso e di un padre che questo figlio non lo merita: è probabile che questo rapporto sbilanciato sia quello più diffuso oggi nelle famiglie. Sono infatti convinto che nella famiglia di oggi i figli siano potenzialmente migliori dei padri. Hanno fatto spesso qualche passo indietro per consentire al genitore di investire tutto se stesso, per ottenere il massimo dalla vita, spesso non riuscendoci e chiudendo la loro vicenda umana da falliti. C’è una considerazione puntuale che il mio protagonista (Riccardo Scamarcio) rivolge alla sua analista “forse due falliti in una stessa famiglia non ce li potevamo permettere…”.
Le storie che porto al cinema provengono molto spesso dalla vita vissuta. Ci sono molti figli che si sentono ingiustamente eredi, depositari di questo ruolo ingrato, chiamati a compensare le figure paterne, a risarcirle per i riconoscimenti che non avevano avuto in vita e molto spesso si ritrovano ridicolizzati da questa condizione patetica dettata da un eccesso di ammirazione e di sudditanza che forse certi genitori non avrebbero meritato. Il nostro film si pone questo bellissimo interrogativo: “Credi che tuo padre avrebbe fatto per te la stessa cosa che tu hai fatto per lui?” Così questo ragazzo regala la propria vita a un padre che per lui non fece nulla: si tratta di un atto d’amore totale che giustifica pienamente la definizione di “ragazzo d’oro”.
Come si è trovato con Riccardo Scamarcio?
Riccardo ha rappresentato per me una vera scoperta. Questo film, come molti altri realizzati con mio fratello Antonio, è nato dall’ipotesi per me ormai consueta di uno “sdoganamento”, di un cambio di un registro di un attore, magari di un comico, che si ritrova a recitare una storia drammatica o viceversa. In un primo tempo avevamo preso in considerazione alcuni giovani attori brillanti del nostro cinema leggero ma in seguito abbiamo pensato che poteva essere un’idea altrettanto originale offrire questa opportunità a Riccardo Scamarcio, un attore che, di film in film, sta dimostrando le sue notevoli qualità. Tra me e Riccardo è nato un bel rapporto umano e da parte mia un crescente e piacevole stupore nei riguardi del suo talento.
Un’altra giovane attrice è Cristiana Capotondi, cosa pensa di lei?
Pur essendo giovane Cristiana è un’attrice già molto esperta; si è ritrovata in questo film perché, da sempre come spettatrice, amava moltissimo, il nostro cinema, senza essersi ancora mai rapportata con i nostri metodi di lavoro. Per noi è stato importante poter dare una bella opportunità a una persona che proveniva da un altro mondo e che poi ha rappresentato una bella scoperta: Cristiana ha una sua grazia naturale ed è stata capace di apprezzare un ruolo come quello di Silvia, la fidanzata di Davide, che non la vedeva protagonista assoluta ed è stata al gioco volentieri, con grande umiltà e sensibilità.
Che rapporto è nato con Sharon Stone?
Una relazione professionale ottima, sia io che lei abbiamo rispettato tutto quello che era stabilito nella sceneggiatura e lei ha sempre tenuto conto in modo puntuale delle mie indicazioni. È evidente che nel caso di una diva hollywoodiana del suo calibro i rapporti inevitabilmente diventano molto più professionali che umani, i divi stranieri che arrivano in Italia per lavorare nel nostro cinema ti danno puntualmente il meglio di loro stessi. Quando ho pensato a lei come interprete ideale per il ruolo di Ludovica nessuno credeva che saremmo davvero riusciti a scritturarla. Quando poi è arrivata a Roma per il primo ciak, a Piazza del Popolo si è ritrovata di fronte a duecento fotografi e cineoperatori schierati tutti insieme: tutto quel clamore non si vedeva a Roma dai tempi della “dolce vita”: il suo “appeal” a livello mediatico è ancora assoluto, almeno in Italia. Credo che mio fratello Antonio debba andare davvero orgoglioso della sua impresa, non era affatto scontato arrivare al risultato finale.
Come è andata, invece, con Giovanna Ralli?
L’avevo incontrata per la prima volta nei primi anni ‘70 perché avrei dovuto dirigerla in due film. Per me è stata una grandissima emozione incontrarla di nuovo, a distanza di tanti anni, mi succede sempre quando mi capita di lavorare con certi attori che portano con loro una luce speciale perché provengono da un periodo storico in cui il cinema era davvero degno di questo nome, li studio sempre attentamente da vicino. Penso ad esempio a Gisella Sofio, Marisa Merlini, Sandra Milo e tante altre attrici nate e cresciute sui set degli anni ‘50. La loro è una scuola meravigliosa, ti consente davvero una sorta di “ripasso” generale delle regole del mestiere che, molto spesso, chi è arrivato dopo non conosce affatto.
Giovanna Ralli rappresenta poi una specie di storia vivente del cinema italiano dal neorealismo ad oggi; mi sono esaltato non solo quando la dirigevo ma soprattutto quando ascoltavo rapito i suoi incredibili racconti e aneddoti sui grandi set del passato di cui era stata protagonista o testimone.
(Foto in copertina e con il simbolo * di Diego Steccanella)
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