Ho voluto aspettare due giorni prima di scrivere qualcosa sulla morte di Paolo Villaggio. Aspettare che prima venissero prontamente sguinzagliati tutti i “coccodrilli” (e conseguenti maratone tv e dvd in edicola) a lui dedicati e dedicati in lungo e in largo al suo personaggio più celebre, quell’Ugo Fantozzi ragioniere che lui scrisse e interpretò per decenni. Non c’è che dire, la serie fantozziana resterà per sempre una fotografia dei vizi e delle bassezze della società italiana. Un’Italia che lui ha saputo raccontare in modo ironicamente drammatico (o drammaticamente ironico).
Per anni (tutt’ora ed eternamente), Villaggio è rimasto confinato soprattutto a Fantocci, diventando un ancora di salvezza per tutti coloro che, come lui, subiscono la vita collezionando sfighe e fallimenti. Per questo riguardando ancora alcune sequenze lo sentiremo sempre vicino, capace di farci sorridere e commuovere (perchè Fantozzi fa anche piangere, diciamolo). Ma Paolo Villaggio è stato un grande attore, a tutto tondo, che il cinema italiano ha riconosciuto solo “tardi”. Penso al Maestro Federico Fellini che lo scelse per La Voce Della Luna (1989), l’ultimo film da lui diretto, permettendogli di vincere il David come Miglior Attore Protagonista. Penso anche al Maestro Ermanno Olmi che nel 1992 lo volle per il drammatico Il Segreto del Bosco Vecchio, con cui Villaggio vinse il Nastro D’Argento.
Paolo Villaggio era molto di più che un comico. Aveva un’umanità incredibile che sapeva infondere nel personaggio che andava ad interpretare. Invecchiando, capelli e barba bianca gli hanno sicuramente conferito un’immagine più saggia e profonda, forse il suo lato più autentico. Una figura rassicurante che, dall’alto della sua esperienza, era in grado di dispensare consigli alle generazioni future. Emblematico è ad esempio il personaggio del Professore universitario nella Generazione 1000 Euro di Massimo Venier (2009): è lui che spinge il giovane protagonista (Alessandro Tiberi) a dichiararsi alla ragazza che ama. Uno sguardo e una presenza, quella di Villaggio, che ha enormemente arricchito il film e, ovviamente, fatto felici tutti gli spettatori.
Ma se oggi penso ad un suo film, penso sicuramente a Io Speriamo Che Me La Cavo (1992), un gioiello diretto da Lina Wertmüller, che si colloca in quel nuovo filone di cinema indipendente e più autoriale che valorizzò tutte le sue capacità interpretative. Tratta dall’omonimo romanzo di Marcello D’Orta, quella è la storia di Marco Tullio Sperelli (Villaggio), un serio ed onesto maestro delle elementari, ligure, che per errore viene trasferito in un piccolo paese nella provincia di Napoli (nel film, Arzano diventa Corzano per motivi di diritti d’autore). Appena arrivato, il maestro, sbigottito e triste, scopre di essere stato destinato ad una terza elementare composta da bambini problematici, poveri, volgari, privi d’istruzione e abituati a cavarsela da soli già dall’età di otto anni.
Senza il supporto della preside della scuola, degli altri dipendenti scolastici (il custode fa quello che vuole) e del sindaco, che non vieta il lavoro minorile, Sperelli si trova ad affrontare una disastrata realtà che lo costringe ad occuparsi della sua classe non soltanto da un punto di vista didattico, ma anche (e soprattutto) da un punto di vista affettivo. Di giorno, uno per uno, va a prendere i bambini dai rispettivi posti di lavoro per portarli a scuola. In particolare, avrà un acceso confronto con uno di loro, Raffaele, un bambino già vicino alla camorra. Sarà la madre di Raffaele a chiedere al maestro di salvare suo figlio. Quando Sperelli sarà riuscito ad entrare nel cuore di ogni alunno, il Provveditorato agli Studi riconoscerà il proprio errore, trasferendolo nuovamente al Nord. Sarà sul treno che Sperelli leggerà la commovente lettera di Raffaele.
Io Speriamo Che Me La Cavo è un film che ho visto da bambino e, ancora oggi, rivedendolo, rivivo le stesse emozioni di allora. Una storia seria e piena di sentimento che Paolo Villaggio ha saputo rendere al meglio, donando al suo personaggio malinconia e ironia, spensieratezza e rigore. Sarebbe stato bello avere Paolo Villaggio come maestro: quand’ero piccolo lo pensavo. Oggi che non c’è più, mi manca già, soprattutto pensando a questo film, dove si può trovare, eternamente, tutto il suo cuore.
Giacomo Aricò
«Quale parabola preferisci? Svolgimento. Io, la parabola che preferisco è la fine del mondo, perché non ho paura, in quanto che sarò già morto da un secolo. Dio separerà le capre dai pastori, una a destra e una a sinistra. Al centro quelli che andranno in purgatorio, saranno più di mille miliardi! Più dei cinesi! E Dio avrà tre porte: una grandissima, che è l’inferno; una media, che è il purgatorio; e una strettissima, che è il paradiso. Poi Dio dirà: “Fate silenzio tutti quanti!”. E poi li dividerà. A uno qua e a un altro là. Qualcuno che vuole fare il furbo vuole mettersi di qua, ma Dio lo vede e gli dice: “Uè, addò vai!”. Il mondo scoppierà, le stelle scoppieranno, il cielo scoppierà, Corzano si farà in mille pezzi, i buoni rideranno e i cattivi piangeranno. Quelli del purgatorio un po’ ridono e un po’ piangono, i bambini del limbo diventeranno farfalle e io, speriamo che me la cavo».
(L’ultimo tema letto dal protagonista, sul treno diretto a settentrione)