Dopo aver ricevuto un’ottima accoglienza alla 72 ª edizione del Festival di Cannes, Ken Loach, regista da sempre espressione di un cinema impegnato e attento all’attualità, dal 2 gennaio 2020 torna nei cinema italiani con il suo nuovo film Sorry We Missed You, un film che racconta le problematiche della gig economy, nuova frontiera della precarietà.
Il film
Newcastle. Ricky (Kris Hitchen) e la sua famiglia combattono contro i debiti dopo il crack finanziario del 2008. Una nuova opportunità appare all’orizzonte grazie a un furgone nuovo che offre a Ricky la possibilità di lavorare come corriere per una ditta in franchise. Si tratta di un lavoro duro, ma quello della moglie come badante non è da meno. L’unità familiare è forte ma quando entrambi prendono strade diverse tutto sembra andare verso un inevitabile punto di rottura.
Ken Loach
Vi presentiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Ken Loach.
Come è nata l’idea di Sorry We Missed You?
Quando abbiamo finito Io, Daniel Blake, ho pensato “Chissà, forse questo è il mio ultimo film”. Ma quando eravamo andati ai banchi alimentari per svolgere le nostre ricerche per quel film, ci eravamo resi conto che molte delle persone che li frequentavano avevano un impiego, part time o con contratti a zero ore. È un nuovo tipo di sfruttamento. La cosiddetta gig economy (il modello economico basato sul lavoro accessorio), i lavoratori autonomi o a chiamata dalle agenzie, la precarietà dell’impiego, sono temi che hanno continuato a caratterizzare le ininterrotte conversazioni quotidiane tra Paul [Laverty] e me. E pian piano è emersa l’idea che forse valeva la pena di fare un altro film, non esattamente complementare a Io, Daniel Blake, ma comunque legato al primo. Abbiamo pensato alle conseguenze che il livello di sfruttamento del singolo lavoratore genera nella sua vita famigliare e come queste si riflettano nei suoi rapporti personali. La borghesia parla di conciliare vita professionale e vita privata, la classe operaia è costretta a far fronte alle necessità.
È un problema nuovo o un problema antico in una veste diversa?
È nuovo solo nel senso che viene utilizzata la tecnologia moderna. La tecnologia più sofisticata è nel veicolo dell’autista, detta i percorsi, consente al cliente di sapere esattamente dove si trova la spedizione che ha ordinato e il suo presunto orario di consegna. Se ha pagato un extra per l’orario della consegna, la merce deve arrivargli entro quell’ora. Il consumatore se ne sta seduto a casa a seguire il veicolo in tutto il quartiere. È un dispositivo straordinariamente sofisticato con segnali che rimbalzano da un satellite chissà dove. Il risultato è che una persona si ammazza all’interno di un furgone, andando da un punto all’altro, di strada in strada, correndo per soddisfare le esigenze imposte da questi strumenti. La tecnologia è nuova, ma lo sfruttamento è vecchio come il mondo.
Come vi siete documentati per preparare il film?
Paul ha svolto la maggior parte delle ricerche e in seguito abbiamo incontrato insieme alcune persone. Spesso gli autisti erano reticenti a parlare, non volendo correre il rischio di perdere il lavoro. È stato estremamente difficile entrare nei magazzini. Un uomo molto disponibile, responsabile di un deposito non lontano dal luogo dove abbiamo girato, ci ha dato indicazioni molto precise su come allestire il nostro magazzino. Gli autisti del film sono quasi tutti autisti o ex autisti nella vita. Quando abbiamo girato quelle scene, sapevano come fare. Conoscevano il processo, il suo funzionamento e le pressioni esercitate per eseguirlo in tempi rapidi.
Cosa vi ha colpito di più durante le ricerche?
L’aspetto più sorprendente è il numero di ore che le persone devono lavorare per guadagnarsi decentemente da vivere e anche la precarietà del loro lavoro. Lavorano in proprio e, in teoria, sono affari loro, ma se qualcosa gira storto tutti i rischi ricadono su di loro. Ed è molto facile che ci sia un problema con il furgone e se non si presentano per svolgere il servizio subiscono sanzioni equivalenti a quelle di Daniel Blake. A quel punto possono perdere parecchi soldi molto rapidamente. Per quanto riguarda gli assistenti domiciliari come Abby, possono stare in giro per le loro visite anche dodici ore, ma vengono pagati solo sei o sette ore al minimo della paga.
Secondo lei quali sono i quesiti che solleva il film?
Questo sistema è sostenibile? È sostenibile fare acquisti grazie a un uomo in un furgone che si ammazza lavorando 14 ore al giorno? In fin dei conti, è davvero un sistema migliore rispetto a recarci in un negozio e parlare con il gerente? Vogliamo davvero un mondo in cui le persone lavorano sotto una simile pressione, con ripercussioni devastanti sulle loro amicizie e sulle loro famiglie e un restringimento delle loro vite? Qui non si tratta del fallimento dell’economia di mercato, al contrario è la logica evoluzione del mercato, conseguenza della concorrenza selvaggia a ridurre i costi e ottimizzare i profitti. Il mercato non si interessa della nostra qualità di vita, è preoccupato solo di fare soldi e le due cose non sono compatibili. I lavoratori sulla soglia della povertà, come Ricky, Abby e la loro famiglia, pagano il prezzo. Ma alla fine tutto questo non conta a meno che il pubblico non creda alle persone che vede sullo schermo, non le abbia a cuore, non sorrida con loro, non condivida i loro problemi. Sono le loro esperienze vissute, riconosciute come autentiche, che dovrebbero toccarci.