Cent’anni fa, il 31 luglio 1914, nasceva a San Remo Mario Bava. Figlio d’arte: suo padre Eugenio, già scenografo per la francese Pathé, è il direttore del reparto trucchi cinematografici all’Istituto Luce, dove il figlio ventenne comincia a lavorare nel 1934 come titolista. Dopo l’esordio come direttore della fotografia con Roberto Rossellini nel 1939 (nei due corti Il Tacchino Prepotente e La Vispa Teresa), Mario Bava si mette dietro la macchina da presa e diventa colui che ancora oggi è considerato il Maestro del cinema horror italiano. Un antesignano per eccellenza: La Maschera del Demonio fu il primo horror gotico italiano, con La Ragazza che Sapeva Troppo nel 1962 inventò il genere del giallo all’italiana mentre Reazione a Catena (1971) aprì il filone degli slasher. Morì nel 1980 e tutti i suoi film, considerati spesso di serie B, furono rivalutati. A lui si sono ispirati – e continuano a farlo – niente meno che Martin Scorsese, Tim Burton, David Lynch e Quentin Tarantino.
Per ricordarlo abbiamo intervistato il critico cinematografico Alberto Pezzotta, autore della monografia Mario Bava, pubblicata da Il Castoro in ben tre edizioni (1995, 1998, 2013).
Un vero e proprio Uomo d’Arte. Quando è stato importante per la sua crescita suo padre Eugenio? Quanto ha inciso la sua passione per la pittura e la fotografia?
Non sono un biografo di Bava. Posso dire che Bava spesso ragiona da pittore, più interessato che all’immagine che al racconto. Anche perché non ha mai fatto mistero di disprezzare molte sceneggiature che metteva in scena. Non che sia unico nella storia del cinema. Quando anni fa ho intervistato Patrick Tam e gli ho fatto le lodi per certe soluzioni stilistiche di My Heart Is That Eternal Rose, mi ha ribattuto: era una sceneggiatura così banale che dovevo impegnarmi su qualcos’altro per conservare interesse al mio lavoro. Avrebbe potuto dirlo anche Bava.
Qual era secondo lei la sua principale dote registica? Come possiamo definire e sintetizzare la sua cinematografia?
Passiamo alla prossima domanda… Bava rideva dei critici che cercavano un fil rouge nella sua opera. Per conto mio trovo un abisso netto tra i gotici-horror, belli ma spesso decorativi, i film di altro genere quasi sempre trascurabili e i film di ambientazione contemporanea come Ecologia del Delitto e Cani Arrabbiati. O anche 5 Bambole per la Luna d’Agosto, dove cerca di parlare del presente con un pessimismo moralista e cinismo sorretto dall’umorismo nero. Il Bava che oggi mi interessa di più è questo.
Un regista capace di trovare sempre soluzioni nonostante i budget limitati che aveva disposizione per i suoi film. Trova che possa essere un esempio in questa difficile epoca di continui tagli alla cultura e alla produzione cinematografica?
Bava faceva film in un’Italia e in un’industria completamente diversa. Un sistema che oggi non esiste più. Oggi il cinema di genere esiste solo a livello amatoriale. Non vedo come i film di Bava potrebbero essere d’esempio. Oggi Bava girerebbe in digitale per risparmiare. Come tutti. E allora? Non si possono fare paragoni.
Come si è comportata la critica italiana nei suoi confronti? In USA e Francia lo adoravano mentre in Italia solo dopo la sua morte sembra essere stato rivalutato…
Cerchiamo di chiarirci le idee, e mi lasci citare un brano della terza e ultima edizione del mio “Castoro” su Bava:
«È la critica straniera, e nella fattispecie francese, che per prima si accorge dell’opera di Bava. La maschera del demonio, il suo film d’esordio, suscita interesse sia presso i “Cahiers du cinéma” sia nel rivale “Positif”, che nel 1961 gli dedica addirittura la copertina. Da questo momento il nome di Bava circola tra i cinefili europei. Da noi la critica ufficiale, quella dei quotidianisti e delle riviste, di solito lo ignora, e quando se ne occupa lo tratta con sufficienza, anche se è disposta a riconscere l’eccellenza tecnica dei suoi film. Ciò non toglie che un prestigio cinefilo di Bava esiste anche in Italia già nella prima metà degli anni Sessanta: come si spiega altrimenti che il nome di Bava figuri in copertina del feltrinelliano Film 1964 curato da Vittorio Spinazzola? O che Bernardino Zapponi annunci nel 1966 un numero del suo libro-rivista “Il delatore” dedicato a Bava, mai uscito per la cessata pubblicazione delle testata? Nel 1968, nel secondo volume di Arcana della Sugar (dedicato a “Il meraviglioso, l’erotica, il surreale, il nero, l’insolito nelle arti figurative e plastiche e nei mass media di tutti i tempi e paesi”), Piero Zanotto scrive che all’interno dell “horror-film” Bava “occupa un tronetto che lo situa al di sopra di tutti gli altri”; e aggiunge che l’“orripilante gotica sfilata d’impalpabili sensazioni necrofore” del suo primo film “recò al nostro cinema qualcosa di ‘diverso’, invano imitato da artigiani privi dell’intuito” del “maestro ligure”. Bava è quindi considerato molto presto maestro e iniziatore di un genere, parecchie spanne al di sopra degli epigoni. Nello stesso anno, in occasione dell’uscita di Diabolik, Giovanni Grazzini scrive sul “Corriere della sera” che il film piacerà agli “intellettuali snob”; gli fa eco Leo Pestelli su “Stampa Sera”. Certo, in Italia la fama di Bava resta appannaggio degli happy few, estranei a condizionamenti crociani e marxisti (quelli per cui era agevole, già nel 1955, rivalutare i melodrammi di Matarazzo, ma era più arduo appassionarsi a vicende ambientate in castelli infestati da streghe e vampiri).»
Detto questo, mettiamoci nei panni di un critico all’inizio degli anni 60. Escono i film di Fellini, Antonioni, Bergman, la Nouvelle Vague, il Free Cinema, Kurosawa… Che tempo ha di vedere i film di Bava, e se li vede come può apprezzarli? Non facciamogliene una colpa. Era inevitabile che i film di Bava fossero trascurati in Italia (ma valorizzati in Francia, dove esisteva una cultura surrealista che valorizzava il fantastico). Ma erano obiettivamente film marginali, anche come incassi, non dimentichamolo. Penso che film come Il Vigile, La Parmigiana o La Voglia Matta siano mille volte più interessanti, come oggetto di studio, rispetto a La Frusta e il Corpo. E questo va detto a tutti i cinefili figli di un’incultura trashista che conoscono a memoria i film di Bava e non sanno chi siano Pietrangeli e Comencini.
Qual è il film di Bava a cui è più legato?
La Maschera del Demonio è girato in modo meraviglioso, si sente la libertà di chi fa esattamente quello che vuole. Idem Operazione Paura. Di recente mi sono rivisto tutti i gotici italiani, per un articolo su “Bianco e Nero”, e quelli di Bava stanno tre gradini sopra tutti gli altri. Anche quelli di Margheriti e Mastrocinque di cui avevo un buon ricordo oggi li trovo tediosi. Detto questo, il mio Bava preferito è sempre stato e sempre sarà Ecologia del Delitto, che ho visto per la prima volta minorenne, su grande schermo. Uno shock mai più ripetuto, ma anche un film che regge ripetute visioni. Dentro e fuori dai generi. Irripetibile.
Intervista di Giacomo Aricò