Presentato lo scorso anno al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, esce oggi al cinema Io Danzerò, pellicola diretta dall’esordiente Stéphanie Di Giusto.che ricorda una straordinaria artista del Novecento, Loïe Fuller.
È stata capace di rivoluzionare la sua epoca e la nostra. È stata un vero punto di riferimento per un’intera generazione di artisti. Toulouse-Lautrec, Rodin e i fratelli Lumière la ammiravano devotamente. La regista rivelazione Stephanie Di Giusto riscopre Loïe Fuller, grande protagonista della meravigliosa Parigi dei primi del Novecento.
Coperta da metri di seta, circondata di luci elettriche e colori, Loïe (interpretata dalla poliedrica Soko), reinventava il suo corpo a ogni esibizione, sorprendendo il pubblico con la sua ipnotica e celebre “serpentine dance”. Divenuta presto il simbolo di una generazione, avrebbe fatto di tutto per perfezionare la sua arte, incurante anche della sua salute. Ma l’incontro con Isadora Duncan (Lily-Rose Depp) avrebbe cambiato presto tutte le carte in tavola.
Vi presentiamo ora un estratto dell’intervista rilasciata da Stéphanie Di Giusto.
Com’è nata l’idea del film?
Tutto ha avuto inizio con la fotografia in bianco e nero di una ballerina che fluttuava nell’aria avvolta in un vortice di veli. La didascalia recitava: Loïe Fuller: icona della Belle Époque. Ero curiosa di conoscere la storia della donna che si celava dietro a quei lunghi lembi di stoffa e ne sono rimasta sbalordita: mi affascinava il fatto che fosse diventata famosa nascondendosi e il suo spirito pionieristico. Grazie alla sua “danza serpentina”, Loïe Fuller ha letteralmente rivoluzionato le arti sceniche alla fine del XIX secolo, anche se quasi nessuno si ricorda di lei.
Che cosa ti ha colpito in modo particolare di lei?
Lei non rispecchiava affatto i canoni di bellezza che erano in voga ai suoi tempi: non era attraente, aveva un fisico massiccio e robusto da ragazza di campagna e si sentiva prigioniera in un corpo che rifiutava. Eppure, inventò istintivamente un modo di danzare che la portò a girare il mondo e, nei suoi spettacoli, riuscì a ricreare la grazia che di natura non aveva, trovando così un senso di liberazione nell’arte. Il concetto di reinventarsi sul palco è estremamente importante per me: alcune persone usano le parole per comunicare, invece lei si servì del corpo per scrivere il proprio destino. Tradusse le proprie inibizioni in movimento, l’inquietudine in energia, trasformandosi in un’indomabile esplosione di vitalità. Un altro elemento che ho voluto catturare è la sua lotta interiore, un misto di forza, determinazione e fragilità.
All’inizio del film, la si vede già recitare testi classici e disegnare in mezzo alla campagna…
Loïe era un’artista ancor prima di diventare un’attrice. Per lei, l’arte era una via di fuga. Non si piaceva, ma era attratta dalla bellezza che la circondava e desiderava fare l’attrice solo perché amava quei bellissimi testi, non per mettersi in mostra. Ironia della sorte, il suo primo ruolo è stato muto. Fu da allora che scelse di recitare in silenzio, esprimendosi solo attraverso i passi di danza che creava e cercava incessantemente di dare intensità. Spiccò letteralmente il volo, prendendo in mano le redini del proprio destino e lasciandosi trasportare dalla sua fede nella bellezza e dalla sua originalità. La sua passione non conosceva confini, era una sorta di corsa contro il tempo che la portò fino all’Opéra di Parigi. È incredibile che Loïe Fuller riuscì a farsi apprezzare nella danza classica, ciò dimostra l’atteggiamento di apertura che la società dell’epoca dimostra nei confronti della creatività.
Per creare la sua danza, ricorse a un gran numero di discipline scientifiche, dalla matematica, alla chimica, alla scenotecnica.
La realizzazione del suo costume di ballo, costituito da 350 metri di seta, era già di per sé un’impresa, che richiedeva veramente la formula matematica che mostro nel film, non me la sono inventata. Dopo la prima performance della “danza serpentina” negli Stati Uniti, in cui indossava un vestito economico di cotone, Loïe capì che doveva trovare il modo di renderlo più luminoso e voluminoso, e che i comuni effetti di luce non sarebbero bastati. Loïe Fuller approfondì lo studio della luce attraverso la lettura di un’enorme quantità di libri e le sue illustri conoscenze, tra cui Edison e l’astronomo Flammarion, arrivando così a conoscere alla perfezione l’illuminazione di scena – da cui si spiega la sua insistenza nel volere 25 tecnici. Nel suo laboratorio chimico privato creò persino dei sali fosforescenti da applicare ai costumi. Gettò le basi dell’astrattismo e delle arti multimediali. All’epoca in cui si esibiva alle Folies Bergère era praticamente un’impresaria teatrale.
Non appena scoprì un nuovo modo di ballare, le venne subito in mente di brevettarlo.
Era all’avanguardia anche sotto quell’aspetto. Quando si rese conto che in America i brevetti non comprendevano il settore della danza, il suo primo istinto fu andare in Francia, dove pensava che il suo lavoro sarebbe stato riconosciuto e salvaguardato. E aveva ragione, visto che riuscì a depositare una decina di brevetti a suo nome.
Guardando il film, ci si accorge che ogni singolo spettacolo era un’impresa a livello fisico…
Coordinare i movimenti senza gravità richiedeva uno sforzo immane, non solo di braccia, ma di tutto il corpo. Difatti, Loïe Fuller sveniva dopo quasi ogni spettacolo, come nella scena alle Folies Bergère, dove vediamo la protagonista su una barella. Loïe ballava solo ogni tre giorni perché dopo ogni performance aveva bisogno di tempo per riprendersi.
Percepiamo in lei una sorta di sentimento autodistruttivo di disprezzo verso di sé…
Sì, lei non voleva guardarsi allo specchio perché non si piaceva e non se ne dava pace. In questo senso, Io danzerò è anche un film sull’autostima. Mi affascina il divario tra l’icona di femminilità che Loïe rappresentava quando danzava e la ragazza normale che era – e odiava– nella vita quotidiana. Lei era pienamente consapevole che, senza il costume, non era nessuno, e faceva di tutto per non distruggere il sogno che mostrava sia al pubblico che ai critici. Aveva paura di deludere la gente, e a ragione: Mallarmé, ad esempio, scrisse dei resoconti sublimi sulla sua performance, ma rimase fortemente deluso quando la conobbe.
È difficile comprendere a posteriori quanto fosse famosa all’epoca.
Loïe Fuller era una delle ballerine più pagate al mondo, ma nonostante l’apprezzamento sia degli intellettuali che del pubblico, molti studiosi non la considerano una ballerina perché non ha trasmesso le sue conoscenze. Conoscendo perfettamente il lato inumano, quasi distruttivo del proprio stile, lei insegnava alle giovani ragazze con cui lavorava a esprimersi in modo diverso. Ho avuto l’occasione di vedere un film diretto da lei, dove le ballerine erano mezze nude e incredibilmente libere, cosa che diede scandalo, essendo l’anno 1900, anche se l’insegnamento che Loïe Fuller voleva dare era proprio la libertà.
Non si può fare a meno di notare la connessione tra gli sforzi di Loïe Fuller in ogni sua performance e quelli di una regista al suo debutto nel cinema…
Loïe Fuller rappresenta tutti i registi. In un certo senso, infatti, il mio è anche un film sulla nascita del cinema, poiché parla di movimento e di regia. Loïe Fuller incarnava quest’arte elitaria e popolare allo stesso tempo, ma aveva una visione più ampia e bella di ogni forma d’arte come un modo per essere liberi. Il mio film tratta proprio di questa libertà vitale.