Presentato nella sezione Cannes Première del 74° Festival di Cannes, giovedì 3 febbraio uscirà nelle sale italiane Stringimi Forte, il film diretto da Mathieu Amalric liberamente tratto dalla commedia Je reviens de loin di Claudine Galea (2003). Il film è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione: “Mettendo in scena un viaggio in macchina come fosse una lunga elaborazione del lutto, Amalric racconta il potere dell’immaginazione – e dunque del cinema – come unico cicatrizzatore possibile dei traumi, e lo fa attraverso un racconto che sa essere minimale e stratificato allo stesso tempo: un melodramma che sussurra con tragica dolcezza il bilancio di una vita e della sua fuggevolezza”.
Il film
Una mattina, Clarisse (Vicky Krieps), moglie e madre di due bambini, prepara il bagaglio, entra nella sua auto e parte, abbandonando la casa dove vive con la sua famiglia. Fra flashback e flashforward, prospettive e ricordi, lentamente emerge una storia diversa.
Mathieu Amalric
Vi presentiamo qui sotto un estratto dell’intervista che il regista Mathieu Amalric ha rilasciato a Olivier Joyard.
Quali sono stati i suoi punti di riferimento per questo film?
C’era la voglia di vedere film, il che era un buon segno. C’erano lacrime e fantasmi in questa storia, quindi ho dato la precedenza ai melodrammi. Ne ho visti tanti: Corpo A Cuore di Paul Vecchiali, Douglas Sirk ovviamente, Nicholas Ray, Michel Piccoli in Ritorno a Casa di Manoel de Oliveira, Bill Murray in Broken Flowers di Jim Jarmusch, anche Marcel Pagnol… Poi i film visionari, mentali: i giapponesi, Luis Buñuel, Il Fantasma e La Signora Muir, Alain Resnais (sempre Resnais!), Boyhood, Alfred Hitchcock… I libri di Laura Kasischke… I meandri di Sophie Calle, la serie «The Leftovers», i film Pixar Up o Coco… Una gran quantità, e ne dimentico! Compresi i brutti film (molto importanti per individuare le trappole in cui sarei potuto cadere senza nemmeno rendermene conto!). Nutrendomi di film altrui, ho verificato, ho rafforzato una sola convinzione: l’intuizione immediata che mi era venuta di trattare il falso/vero, il delirante/reale sullo stesso piano, senza separarli esteticamente, senza cuciture. Quello che la protagonista avrebbe vissuto e quello che avrebbe progettato sarebbe stato rappresentato nello stesso modo. Il dolore folle mi sembra fare questo, no? Pensare alle separazioni dove tutto si mescola lo spazio, il tempo, la mancanza, il dolore, i ricordi alterati, la gelosia nell’immaginare l’altro, l’onanismo, il tornare indietro… Non si usa nessun effetto seppia o filtro per dissociare bene il vero dal falso in questi momenti, si accumula e si frammenta, si eccede nei minimi dettagli. Fa male e fa bene! Inoltre, iperrealismo era una parola che tornava spesso. Credere a tutto, anche se… (da qui il dipinto tratto dalla foto di Robert Bechtle, posto nell’ufficio vuoto di Clarisse).
Dopo, il punto di riferimento era Non Torno a Casa Stasera (1969) di Francis Ford Coppola. Una donna che se ne va… Un road movie tragico e vitale allo stesso tempo. Abbiamo anche filmato Clarisse uscire dal cinema. Avrebbe pianto davanti alla scena della cabina telefonica (quando Shirley Knight chiama suo marito) proprio come Anna Karina piange davanti a Falconetti/Giovanna d’Arco di Dreyer in Questa è la Mia Vita di Godard. Ma Non Torno a Casa Stasera aveva talmente impregnato il film che non ne avevamo più bisogno, si potevano togliere le impalcature, e così non l’abbiamo girata. È l’unico film che ho mostrato a Christophe Beaucarne, il capo operatore. L’immagine, la grana viene da Non Torno a Casa Stasera. Come il lungo cappotto marrone, in cui la protagonista sembra sentirsi protetta, rintracciato dalla costumista Caroline Spieth, è lo stesso, un po’ più morbido, non di pelle ma di pelle scamosciata.
Perché ha scelto questo titolo, molto fisico, molto initimo?
Tutto questo è accaduto prima del Covid. Il titolo ideale era Imitation of Life, ma era già stato preso. (Ride) «Vengo da lontano» mi evocava troppo un viaggio sociologico. Ascolto le canzoni quando cerco i titoli, un po’ come Fanny Ardant ne La Signora della Porta Accanto. A un certo punto è arrivato Étienne Daho. Avevo immaginato la scena del nightclub su La Nage Indienne, nel ritornello c’è «Stringimi forte. Se il tuo corpo si fa più leggero, potremo salvarci», che diventa: «Stringi meno forte. Se il tuo cuore si fa più leggero, potrò salvarmi». Nella sceneggiatura «Serre moi(ns) fort» è rimasto a lungo in bilico… Ma per una volta la prima scelta ha vinto! «Serre moi fort» è finalmente arrivato sul ciak e ci è rimasto. Ma senza trattino (tra «serre» e «moi», ndt). Tre parole come isolate le une dalle altre.
Ha filmato questa solitudine femminile attraverso viaggi a piedi, fisici e psichici…
È bello guidare da soli… mette in movimento i pensieri. Ma il problema non era la ragazza quanto l’automobile. Trovare un’auto oggi che sia divertente da filmare non è facile. Così con Dylan Talleux, il primo assistente, ci siamo detti: e se l’auto fosse appartenuta già a Marc nel flashback del loro incontro in discoteca, potrebbe essere un’auto più vecchia, che ci piace. E se Marc fosse andato sulla neve con i bambini in quella macchina, capiremmo perché può comunicare con loro dalla sua radio, antenna, K7. Quanto al fatto che sia una donna sola… credo di credere di aver fatto qualche progresso, che la base non sia più il fascino del femminile, la stanza delle ragazze, ma niente è meno sicuro… non lo so. Clarisse, sono io? Io è un altro/a? La questione resta aperta.
Il film rimane a lungo in mente dopo la proiezione, come se fosse in grado di agire in ritardo…
Probabilmente perché la sua invenzione protettiva si ferma, e la sua tragedia nuda ci assale retrospettivamente. E per di più Clarisse ci lascia, se ne va. Voglio andare in macchina con lei, con me, da qui l’ultima inquadratura furtiva. Dopo tutti gli sforzi vitali che ha fatto, gli stratagemmi, il desiderio, il coraggio, l’immaginazione… andrà tutto bene. Non so come dire…andrà tutto bene, comunque… Sono cose che tutti noi viviamo con gli assenti. C’è una spiritualità che ognuno inventa, uno spiritismo. Perché la mia gioia rimanga, nonostante tutto. Non poteva finire nella casa-mausoleo vuota, bisognava che Clarisse riprendesse la strada, anche come una vagabonda a vita. «Si ricomincia».
Non abbiamo pronunciato la parola lutto.
Sì, è vero. Facciamo un bell’applauso ai nostri morti per vedere… Il tempo del lutto, che scherzo, non esiste nella vita reale: «Aggiusta le tue cose e torna ad essere produttivo». Nessuno vive così, intimamente, un abisso. Da soli, deliriamo per mettere un piede davanti all’altro… Lo facciamo tutti, no?