The Falcon and The Winter Soldier è la serie Marvel più politica di sempre. Nei sei episodi disponibili su Disney+, sceneggiati da Malcolm Spellman e diretti da Kari Skogland, ci sono supereroi, supercattivi e supersoldati di fantasia, ma soprattutto gli stessi superproblemi che la nostra società affronta quotidianamente. Da qui in avanti allerta spoiler.
Con The Falcon And The Winter Soldier finalmente Disney affronta tematiche difficili ed ambigue – l’integrazione tra comunità, il razzismo istituzionale e il lato oscuro del patriottismo – e li pone al centro del palcoscenico. Non ci sono risposte semplici ma c’è un tentativo di dialogo e approfondimento che parte da uno dei simboli della nazione, come lo scudo a stelle e strisce di Captain America. Prima immacolato e poi insanguinato, un fardello difficile da portare che prima o poi troverà la sua collocazione.
Uno scudo e la sua ingombrante eredità
L’immaginario fumettistico ricorre spesso alla metonimia (la lama per indicare la spada, la parte per rappresentare il tutto), per far familiarizzare l’eroe nel suo ruolo, nel significato della sua missione e nei demoni che lo tormentano. La maschera di Batman incarna la sua identità celata e l’idealizzazione della sua crociata contro il crimine. L’armatura di Iron Man non è solo ciò che lo rende invincibile, costituisce anche la debolezza che lo rende vulnerabile, sia fisicamente che emotivamente. I comics statunitensi hanno saputo regalare una nuova epica moderna, e nella loro serialità hanno cercato di raccontare le ambiguità di ciò che ci circonda. Se l’America è il primo posto dove guardare al mondo di oggi, allora lo scudo di Steve Rogers è il simbolo a cui rivolgersi. Al termine di Avengers: Endgame, il Captain America Steve Rogers (Chris Evans) lascia lo scudo all’amico Sam Wilson (Anthony Mackie), compagno del supergruppo degli Avengers. Ma nel primo episodio di questa serie vediamo che Sam non agisce colorato di stelle e strisce, ha ancora con il costume alato di Falcon. Ha riconsegnato lo scudo al Governo, che prima lo espone allo Smithsonian come lascito di Rogers e simbolo per tutta la nazione, poi lo assegna ad un altro personaggio. “Perché hai abbandonato lo scudo?”, gli chiederà più volte il compagno d’avventure Bucky (Sebastian Stan). Quest’ultimo, ex-sicario sotto condizionamento nemico con il nome di Soldato d’inverno, cerca di fare i conti con il suo passato e accompagna Sam fino all’inevitabile investitura da Capitano. Ma Capitano di quale America, esattamente?
Il cuore black dell’America
La lotta per i diritti civili costituisce il cuore delle tensioni che caratterizzano l’America odierna. Le gesta del movimento #BlackLivesMatter, la sentenza appena emessa contro l’assassino di George Floyd, l’ennesima vittima di colore in un conflitto con la polizia, oppure la notizia di una chat di adolescenti texani che si “spartivano” i compagni di classe neri come fosse una tratta di schiavi. Avvenimenti che infiammano il quotidiano dibattito pubblico e fanno riflettere sul razzismo sistemico che l’intera nazione sembra non aver ancora superato. Quali riflessi troviamo nell’industria culturale? Se la blacksploitation degli anni ‘70 ha iniziato a far presente ad Hollywood che ci sono anche altre persone oltre ai bianchi, finalmente questa rappresentazione inizia a raccontare l’intera condizione di chi, fino a ieri, ha dovuto vivere “da minoranza”. Da Eddie Murphy in poi il grande pubblico si è abituato ai protagonisti di colore, e lo stesso è accaduto nei film Marvel. Black Panther è stata l’apoteosi di un film mainstream fatto/recitato/diretto/destinato al mondo black. Ma nessuno di questi ha mai raccontato il trauma di essere di colore, il retroterra culturale, gli sforzi e i sacrifici per raggiungere una condizione parificabile a quella della popolazione bianca. Captain America rappresenta anche tutto questo?
Sam Wilson, T’Challa e Isaiah Bradley
Sam Wilson non ha accettato lo scudo per tante ragioni, anche simboliche. Innanzitutto il passaggio del costume “da un bianco ad un nero” non è una mera ragione di casting, è una transizione che implica un accettazione del ruolo, un chiarimento di intenti e di identità, una consapevolezza della tensione razziale di oggi. Il Cap di Rogers incarna il “sogno americano”, ma negli USA non c’è solo chi vuole “emergere”, ma anche da chi deve “sopravvivere”. Il regno di Wakanda di Pantera Nera appare ricco e florido quanto il suo sovrano T’Challa (il compianto Chadwick Boseman) mentre la Louisiana di Sam è una periferia povera dove la situazione finanziaria della sorella, rappresentata dalla barca di famiglia, è a rischio bancarotta, e l’unico aiuto, alla fine, arriverà solo dalla stessa comunità cittadina. Il background e il contesto di Sam non sono né l’America ideale di Rogers nè l’Africa di fantasia di T’challa. La nemesi più evidente di questa situazione è il “what of” di Isaiah Bradley (Carl Lumbly): cosa sarebbe successo se Captain America fosse stato di colore? La storia di Bradley è inquietante: supersoldato come Steve Rogers, compie un insubordinazione per salvare i compagni, anche qui come Steve Rogers, ma poi viene rinchiuso, usato come cavia per gli esperimenti, dimenticato da tutto e da tutti… decisamente non come Rogers. Per lui lo scudo non è simbolo di libertà bensì di oppressione. Solo nel monologo finale di Sam ci sarà una resa dei conti e l’accettazione del ruolo di simbolo dei discriminati della comunità afroamericana. Più nelle parole forse che nei fatti, ma da oggi inizia una nuova era di eroe di colore.
La terra delle seconde possibilità
Tornando al primo episodio, avevamo scoperto che lo scudo era stato affidato a John Walker (Wyatt Russel, figlio d’arte del celebre Kurt), pluridecorato eroe di guerra privo di poteri ma archetipo dell’americano perfetto. Il suo arco narrativo è fenomenale e crea un ulteriore “what if”, questa volta un doppio deviato di Rogers: lo percepiamo subito come un villain perché appare come un rude soldato, ma Captain America non è solo un soldato, è un uomo di ideali. Qui lo scudo diventa come l’Anello di Tolkien: un peso che logora chi lo porta. Walker vuole agire per il meglio, ma nei suoi trascorsi in guerra, per arrivare dove è arrivato, ha fatto anche del peggio, ed è qui che il modello di Rogers è ingombrante e ineguagliabile. Walker patisce il peso della responsabilità, finendo col compiere tutte le scelte sbagliate possibili. Quando deve collaborare con Sam e Bucky, non riesce ad integrarsi. Quando ha la possibilità di assumere il siero del supersoldato, cede e lo assume. Quando uccidono Battlestar/Lamar (Clé Bennett), l’unico vero amico e chiaramente suo contraltare emotivo, si lascia andare alla rabbia insanguinando lo scudo e compiendo il classico gesto da cui non si torna più indietro. Ma alla fine una scelta giusta la farà, abbandonando la vendetta per salvare degli innocenti, ottenendo il costume da “U.S. Agent” al servizio… forse del governo, lo scopriremo. Perchè, se Rogers incarnava il patriottico tutto d’un pezzo, l’eroe contemporaneo è invece sempre in conflitto con sé stesso. E comunque l’America è anche questo, la terra delle seconde possibilità.
Nessun cattivo, solo disperazione.
L’ambiguo John Walker ci dimostra come non ci possa essere una divisione manichea tra buoni e cattivi. Lui agisce come avversario ma è allineato nella lotta ai terroristi e desidera ardentemente un occasione di riscatto poiché si ritiene del giusto – e molti americani si troverebbe anche d’accordo nelle sue motivazioni di vendetta e giustizia. A loro volta, i terroristi che gridano “un mondo, un popolo” vogliono solo eliminare le barriere che sono state erette tra i governi, le nazioni e i rifugiati – i tre miliardi di persone ricomparsi tra lo “snap” e il “blip”, gli eventi di Infinity War ed Endgame. Le stesse motivazioni di Karli Morgenthau (Erin Kellyman) e dei suoi Flag Smasher, gli “spazzabandiera”, possono essere condivisibili nelle finalità, ovviamente non nelle modalità brutali e omicide. O ancora, Sam che lotta contro un sistema (le banche, il Governo e le sue scelte sbagliate) che si ritrova comunque a difendere. Finalmente lo scudo non è solo un simbolo positivo, ma si mostra per le luci e le ombre che porta con sé. Steve Rogers, Sam Wilson, John Walker e Isaiah Bradley: quattro potenziali versioni dello stesso eroe, nessuna delle quattro totalmente ancorate alla realtà o alla società di oggi. Il multiplo livello di lettura obbliga lo spettatore a domandarsi non solo chi sia veramente il cattivo di questa serie, ma anche ad affrontare ancora irrisolte questioni di natura politica. La Marvel dello schermo di oggi si apre a questa partita.
Gli ideali oltre la sceneggiatura
Una digressione nella messa in scena. Tante tematiche lodevoli hanno solo pecca che limitano la godibilità di tutto l’impianto narrativo: una serie di buchi di sceneggiatura che ogni tanto ci fanno salutare la cosiddetta “sospensione dell’incredulità”. La situazione finanziaria di Sam ad esempio è un mero pretesto: un Avengers che ha salvato più di una volta il mondo (e l’universo) si ritrova senza soldi, rimbalzato pure dalle banche… ma se anche l’ultimo degli influencer ha una sponsorizzazione, perché lui non tenta questa strada? Oppure il reciproco astio tra lui e Bucky, risolto con una seduta di pseudoterapia di coppia. Il colpo più duro è il personaggio di Zemo (Daniel Brühl). In Civil War era uno dei villain Marvel più credibili, risoluto e senza scrupoli perché disperato e segnato da ferite profonde ed emotivamente condivisibili. Qui diventa un allegro aiutante dalle mille risorse. La sua semplicissima fuga da un carcere di massima sicurezza è un totale esempio di nonsense. Il suo ballo a Madripoor materiale per diventare un meme di successo online. Almeno il suo arco narrativo si chiude in modo dignitoso e coerente. Beninteso, non si tratta di enormi voragini, ma di situazioni posticce, chiaramente funzionali a dare l’avvio a svolte narrative e sfaccettature ai personaggi, che a volte mettono in ombra i protagonisti, a volte corrono troppo e in modo forzoso. Anche qui il Covid-19 ha cambiato i piani di riprese e non solo: pare ci fosse una sottotrama – poi rimossa – legata proprio ad un virus come arma dei Flag Smasher. Nel complesso è un vero peccato vedere certi aspetti banalizzati e sacrificati, ma possiamo soprassedere perché questa è una storia di simboli, di comprimari, di ideali e di sfumature. E c’è un perchè.
La televisione trova il suo spazio nella narrazione Marvel
The Falcon and the Winter Soldier è la seconda miniserie Marvel pensata appositamente per Disney+. Nei piani iniziali poteva essere un semplice “filler”, un riempitivo tra una megapellicola e l’altra. L’emergenza sanitaria in corso ha di fatto annullato ogni uscita, e il pubblico Marvel ha posto molta più attenzione a questa produzione che ad altro – basta pensare a Black Widow, anch’essa pensata per il grande schermo e invece dirottata sullo streaming. Da una parte gli incassi – di cui ormai conosciamo l’ordine di grandezza – dall’altra le sottoscrizioni all’abbonamento – un mondo i cui meccanismi stiamo iniziando ora a conoscere.
Incredibilmente la situazione gioca a favore della libertà creativa: una storia sulla disperazione come WandaVision forse non avrebbe guadagnato i miliardi di dollari di uno spettacolo visivo come un Avengers, e lo stesso per The Falcon and the Winter Soldier: una serie sul come Sam giunga allo scudo, con tutte le ambiguità e le contraddizioni dell’America di oggi, non sappiamo quanto avrebbe sbancato il botteghino. Anche perché a livello di trama non aggiunge nulla all’Universo Marvel: sul finale di Endgame Steve Rogers affida lo scudo a Sam. Nel prossimo film Marvel troveremo Sam come Captain America, fine. In teoria si può anche saltare la visione di questi sei episodi. In teoria.
La serialità dei fumetti replicata su schermo
C’è una sottile ma fondamentale differenza tra queste opere dedicate a Falcon e Wanda, rispetto ad Agent Carter, Agents of the SHIELDS oppure l’imminente Loki, che seguirà uno dei personaggi più carismatici della Marvel (oseremmo anche dire, finalmente!). Non siamo di fronte a spin-off, storie aggiuntive pensate per “allungare il brodo” del MCU. Qui l’approfondimento riguarda storie e personaggi che già conosciamo, andando a raccontare i perché e i percome. Per farlo, la scelta della TV è perfetta. Un film come Pantera Nera è sufficiente a rivendicare l’orgoglio e la potenza black, ma può bastare a raccontare la complessità di una nuova situazione geopolitica dopo il “blip”, del superare traumi, del sopravvivere alle discriminazioni di un’intera comunità? La serialità dei fumetti trova uno specchio in quella televisiva. C’è spazio per un’ampia narrazione (chi sarà degno dello scudo?), articolata con momenti di azione (partendo dalle spettacolari sequenze aree di Falcon) alternati ad approfondimenti psicologici (i tentativi di redenzione di Bucky) in un crescendo di tensioni (le disuguaglianze sociali), di pathos (la statua dorata a riconoscimento pubblico di Bradley) e di indizi disseminati per raggiungere il climax (l’identità di Power Broker) o insinuare collegamenti con nuove opere (la contessa Allegra de la Fontaine e il futuro dell’US Agent). Sei episodi forse bastano appena ad accennare a tutto questo questo, e chiudono i giochi anche in modo repentino, ma almeno costituiscono un grande passo avanti verso questa direzione. Paradossalmente, in questo calderone di temi e personaggi, ciò sembra più sacrificato è proprio il rapporta tra i due protagonisti, di cui intravediamo la chimica, ma alla fine non riusciamo a coglierla appieno. Forse lo faremo nel prossimo Captain America 4?
Un viaggio che va intrapreso
Tecnicamente Indistinguibile dalle versioni cinematografiche dato l’alto livello di spettacolarità, The Falcon and the Winter Soldier patisce parecchie sbavature a livello di sceneggiatura, ma mette un piede nel mondo della complessità e dell’ambiguità non solo di supereroi con superproblemi, ma del quotidiano alle prese con il contemporaneo. Finalmente Marvel non mira solo ad allungare la trame, ma dà spazio al background dei personaggi. Si è quindi spostato il focus, dalla meta al viaggio. Un viaggio davvero intenso.
Enrico Banfo