Gli straordinari Toni Servillo e Daniel Auteuil sono i protagonisti de Le Confessioni, il nuovo film – da oggi al cinema – prodotto da Angelo Barbagallo e diretto da Roberto Andò che lo ha anche scritto insieme ad Angelo Pasquini. Di altissimo livello il resto del cast, internazionale: Connie Nielsen, Pierfrancesco Favino, Marie-Josée Croze, Moritz Bleibtreu e con la partecipazione di Lambert Wilson. Straordinarie anche le musiche, firmate da Nicola Piovani.
Siamo in Germania, in un albergo di lusso dove sta per riunirsi un G8 dei ministri dell’economia pronto ad adottare una manovra segreta che avrà conseguenze molto pesanti per alcuni paesi. Con gli uomini di governo, ci sono anche il direttore del Fondo Monetario Internazionale, Daniel Roché (Daniel Auteuil), e tre ospiti: una celebre scrittrice di libri per bambini, una rock star e un monaco italiano, Roberto Salus (Toni Servillo). Accade però un fatto tragico e inatteso e la riunione deve essere sospesa. In un clima di dubbio e di paura, i ministri e il monaco ingaggiano una sfida sempre più serrata intorno al segreto.
I ministri sospettano infatti che Salus, attraverso la confessione di uno di loro, sia riuscito a sapere della terribile manovra che stanno per varare, e lo sollecitano in tutti i modi a dire quello che sa. Ma le cose non vanno così lisce: mentre il monaco – un uomo paradossale e spiazzante, per molti aspetti inafferrabile – si fa custode inamovibile del segreto della confessione, gli uomini di potere, assaliti da rimorsi e incertezze, iniziano a vacillare.
Vi proponiamo ora l’intervista rilasciata dal regista Roberto Andò.
Il film si muove su un doppio registro: quello realistico, tangibile, tagliato sul modello dei grandi meeting internazionali, e quello rarefatto, quasi metafisico, affidato a personaggi isolati e quasi nascosti al mondo. Possiamo pensare che questa duplicità sia l’essenza del potere, da un lato materiale e aggressivo, dall’altro occulto e subdolo?
Nel film ho cercato una totale adesione al vero, coniugata al misterioso incedere del monaco, un uomo che non si sa da dove venga e dove vada. A partire dalla scelta del luogo in cui abbiamo girato, un albergo a Heilingendamm, in Germania, ho cercato un realismo che potesse dar conto dell’aspetto intimo e sfuggente del potere. Ho cercato un luogo dove esterno e interno si confondessero. Un luogo che, suo malgrado, fosse di suspense, dove potesse accadere qualcosa di moralmente rilevante. Il segreto e la sua custodia sono gli elementi cardine del potere. Un potere che si isola, che non comunica, è necessariamente metafisico, lo è suo malgrado. Di fatto, nel film si scontrano due idee del segreto, quella ineffabile e arbitraria del potere economico, e quella che, attraverso il segreto, difende il diritto a una umana difesa della propria libertà, di un proprio spazio in cui essere liberi da tutti: lo spazio della coscienza. In questo senso la confessione è un istituto della Chiesa molto prezioso, perché protegge la dignità della persona, la sua inviolabilità. Nonostante questo, il cristianesimo è una delle religioni che non fanno perno sul segreto. “Io ho parlato chiaramente al mondo – dice Gesù – non ho mai parlato di nascosto, ma sempre in pubblico, in mezzo alla gente”. Un grande insegnamento.
Come regista, e spesso anche sceneggiatore, lei firma lavori cinematografici e poi pièce teatrali, allestimenti di opere liriche, recital musicali. Per non parlare della scrittura, come il romanzo Il trono vuoto da cui due anni fa ha tratto il suo ultimo film Viva la libertà. Come salta, intendo dire mentalmente e praticamente, da un progetto all’altro dove probabilmente in molti casi si procede in parallelo? Come si divide lei e, meglio ancora, come concilia questi mondi “così vicini e così lontani”?
Non so come si arriva a quella che può anche apparire come una perversione, suppongo che sia un andare per inclusione più che per esclusione. Ho sempre incluso tutto quello che mi ha affascinato, da cui sono stato sedotto. Ma oggi mi interessano soprattutto il cinema e la letteratura, mi interessa il modo in cui questi due linguaggi sono sottoposti a continui cambiamenti pur rimanendo fedeli a se stessi. Mi interessa anche la televisione, la sfida che viene dal mondo delle serie, la possibilità che esse offrono di inventare mondi, tempi, scenari “altri”. Per il teatro e l’opera invece ho bisogno di trovare l’occasione giusta, quella che sfugge alla ripetizione, alla stanchezza. Ma quando si può fare o assistere a del grande teatro, o a una grande messa in scena d’opera, la ricompensa è enorme.
Come dicevamo la musica in generale occupa un posto essenziale nella sua carriera artistica. Per le colonne sonore intreccia con una certa disinvoltura la tradizione classica con la contemporanea ed il pop sofisticato, alla Radiohead e simili per intenderci. La colonna sonora di questo film appare essenzialmente classica e piuttosto “discreta”, come a sottolineare la sospensione, i silenzi dentro ai quali fluttuano i personaggi. Come è arrivato a questa scelta?
La delicatezza con cui Nicola Piovani ha approcciato il film e la sensibilità con cui ha immaginato una musica appropriata a Salus, alle diverse situazioni in cui egli è coinvolto, sono esemplari. Si trattava di trovare una dimensione che si muovesse tra il thriller e il silenzio. Non musiche di genere ma, appunto, musiche che dessero conto di una tensione, di una suspence investita di un mistero che è soprattutto morale. Gli unici brani classici che uso in questo film appartengono a Schubert, un compositore che amo molto, un artista dell’inquietudine che molto si attaglia a ciò che volevo comunicare. La Winterreise, uno dei suoi capolavori, un’opera composta da 24 poemi cui corrispondono 24 lieder per pianoforte e baritono era già menzionata in sceneggiatura: è un’opera a cui sono particolarmente affezionato e di cui anni fa ho curato una versione scenica interpretata da Ian Bostridge e Julius Drake per il Maggio Musicale Fiorentino. Nel film, il ventiquattresimo lieder della Winterreise si fonde alle musiche composte da Piovani come una sorta di reperto che allude alla deriva di un’anima e, al contempo, al naufragio di una certa idea d’Europa. Un’idea che nel suo capolavoro Schubert aveva ampiamente profetizzato. Poi c’è un pezzo pop, di Lou Reed, Walk on the wild side, una canzone del 1972, che ha fatto da manifesto per una generazione e che nel film, in una scena, i ministri canticchiano tutti insieme.
Nei suoi film ha spesso diretto importanti attori stranieri, francesi ed inglesi in particolare. Qui, a parte gli italiani Servillo e Favino, presenta un cast internazionale di prima fila con interpreti dal Canada, Francia, Germania, Danimarca, Inghilterra, Giappone, Stati Uniti. Che tecnica adotta per amalgamare e creare l’empatia indispensabile fra interpreti di lingue e culture differenti?
È un gruppo di attori di prima grandezza quello che interpreta il film. In genere, preferisco parlare agli attori dei personaggi prima delle riprese. Sul set lo faccio quando è necessario ricreare un’atmosfera di particolare tensione. In quei casi, mi comporto come si fa nel corso delle prove a teatro, sviscerando la fisionomia di ogni personaggio, e i relativi conflitti. In effetti, quella di questo film è una storia che ha a che fare con i riti della tribù politica che circola nei summit internazionali e quindi, oltre al cast cosmopolita, mette in scena anche dilemmi e contraddizioni di un frangente preciso della storia mondiale. Al centro di un’Europa che si perde nei decimali, ma è incapace di trovare la propria anima. In testa al cast, ci sono due grandi attori e due amici con cui avevo già lavorato, Toni Servillo e Daniel Auteuil. Due attori per i quali viene sempre voglia di scrivere un film e che avevano molta voglia di lavorare insieme.
Come è maturato il personaggio del monaco?
Salus è un visitatore, un uomo di cui non si sa nulla e che, per caso o per necessità, si trova a contatto col potere, con le certezze del potere, al centro del segreto che nutre il potere. Un personaggio che è in grado di sgretolare queste certezze col suo semplice passaggio silenzioso. Per dare voce a questo personaggio, io, Angelo Pasquini e lo stesso Toni Servillo abbiamo letto tante biografie di persone che sono passate al monachesimo, al silenzio eremitico, gente che provenendo dal successo in lavori eminentemente profani ha deciso di corrispondere al desiderio di sparire nella meditazione, nella preghiera. Sarei tentato di dire che Salus è un personaggio nato dal silenzio.
Chi sono dunque Roberto Salus e Daniel Roché? Partiamo dal primo…
Si può dire che il protagonista del mio film appartenga, come il Gesù di cui parla Dostoevskij, alla schiera dei disturbatori. “Tu hai dato a noi il diritto di legare e di sciogliere, e ora non puoi pensare di riprendertelo. Perché dunque sei venuto a disturbarci?”, chiede il Grande Inquisitore a Gesù nel romanzo I Fratelli Karamazov. Ce ne sono sempre stati di disturbatori, dentro e fuori la Chiesa. I certosini, l’ordine cui appartiene Salus, sono molto pochi nel mondo, meno di duecento, e scelgono di fare una vita affidata all’intensità, inseguendola attraverso la preghiera, il silenzio, la solitudine e la povertà. Sono persone che mobilitano un’energia speciale e la riversano nel loro corpo e nelle loro azioni. In genere, i monaci rappresentano una spiritualità che non si concilia con la norma. Mi sembrava importante che in questo albergo terminale, una sorta di capolinea della Storia europea, i padroni del mondo si confrontassero con un uomo che non solo non possiede nulla, ma che addirittura pensa di non disporre neppure della propria vita.
E Daniel Roché?
Roché, l’antagonista interpretato da Daniel Auteuil, lo si può invece descrivere come un demiurgo che muove i destini di un regno impenetrabile e oscuro, quello dell’economia. L’emblema di un culto al tramonto, quello di un potere che ha iniziato a navigare senza rotta. Sono partito da un punto di vista spesso trascurato, dal fatto cioè che l’economia, nel suo assetto attuale, si configura più come una teologia che come una scienza. A maggior ragione ora che è stata costretta dalla crisi a rivedere i propri parametri dottrinari, dopo l’incrinarsi del proprio ruolo oracolare e la serie di clamorosi fallimenti registrati negli ultimi anni. Ma il film non è per niente ideologico, si muove in punta di piedi in una zona dove ogni certezza si sfuma, e la parola, più che rivelare un pensiero, vuole nasconderlo. Ci sono molte domande, e nessuna risposta. E c’è soprattutto una certa idea del cinema e del giallo, da Hitchcook a Polanski.
EXTRA – Le Confessioni musicali di Nicola Piovani
“La musica del film è stata registrata con un metodo fra i più tradizionali, cioè con l’orchestra che suona dal vivo mentre davanti agli occhi del direttore e del regista scorrono le immagini delle sequenze del film. Questo metodo, fino a qualche anno fa, era un passaggio quasi obbligatorio, non esistevano infatti tecnologie in grado di “manipolare” molto la musica dopo la registrazione, e i brani venivano montati necessariamente più o meno come uscivano dallo studio di incisione. Ma questo vecchio metodo è ancora, secondo me, uno dei più affidabili, quello che più permette alla musica – al compositore, al direttore d’orchestra, ai musicisti esecutori – di seguire passo passo la narrazione, il ritmo, il montaggio, e permette alle partiture di adeguarsi alla regia del film. È un metodo un po’ più costoso dei metodi moderni, dettati più che altro da ragioni di risparmio, ma è un metodo che ci ha permesso di raccontare questo film anche attraverso la musica, con un’elasticità modulare che solo l’orchestra dal vivo mi sa dare. Ringrazio perciò la produzione di aver investito senza troppa parsimonia in questa colonna sonora, e ringrazio in modo particolare l’editore Piero Colasanti che, prima di lasciarci, ha voluto generosamente contribuire alla realizzazione delle musiche de Le Confessioni, e a cui dedico tutto questo mio lavoro“.
Nicola Piovani