Franck Dubosc fa il suo esordio alla regia in Tutti In Piedi, una commedia che – dal 27 settembre sarà nelle nostre sale – lo vede anche protagonista al fianco di Alexandra Lamy.
Jocelyn (Franck Dubosc) è un uomo d’affari di successo, un inguaribile seduttore e un bugiardo incallito. Un giorno, a causa di un malinteso, viene scambiato per disabile dalla vicina di casa della defunta madre, la giovane e sexy Julie. Per conquistarla, Jocelyn decide di approfittare del fraintendimento.
L’equivoco, che inizialmente sembra essere solo un gioco divertente, diventa complicato quando Julie gli presenta sua sorella Florence (Alexandra Lamy) che, costretta su una sedia a rotelle a seguito di un incidente stradale, non ha perso la voglia di vivere a pieno e sembra abbattere qualsiasi barriera col suo irresistibile sorriso. È allora che, in bilico sull’esile filo di una insostenibile bugia, Jocelyn inventa una doppia vita: una in piedi e una sulla sedia a rotelle.
Ecco qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata da Franck Dubosc.
Come è nata l’idea per questo film? Dall’equivoco iniziale – chi siede su una sedia a rotelle non necessariamente è un invalido – o da qualcosa di più personale?
La mia motivazione era duplice e doppiamente personale. Un giorno, a causa dell’età e dell’impossibilità di camminare, mia madre si ritrovò su una sedia a rotelle. La sedia, simbolo di handicap, divenne una soluzione che le permetteva finalmente di riprendere ad uscire. Diceva, però: “Non posso andare al mercatino della chiesa, perché lì ci sono le scale”. Fu come una rivelazione. Quello strumento che dapprima era sembrato una benedizione, era improvvisamente diventato un ostacolo. Pensai a tutti quei disabili che ogni giorno si trovano ad affrontare questi problemi. Inoltre, avevo sempre desiderato scrivere una storia d’amore che non si basasse su differenze culturali o sociali, ma fisiche. È una domanda che mi ha sempre affascinato: cosa succederebbe se ci si innamorasse di una persona disabile? La proiezione del futuro, come minimo, si complicherebbe molto. L’amore, alla fine, si dimostrerebbe più forte delle considerazioni razionali? Io credo di si, ed è il motivo per cui ho deciso di fare questo film.
Quindi alla base del film c’è essenzialmente una differenza fisica?
È una cosa che mi interessa e che mi ha sempre attratto. Da bambino mi innamorai di una ragazzina con un forte strabismo. Tutti la prendevano in giro, ma io, perdonate l’espressione, la guardavo con occhi diversi. Mi fu subito chiaro che la sua diversità era un vantaggio, che aveva un suo fascino. Penso però che ci voglia molto coraggio per accettare, per amare e costruire una vita con qualcuno diverso da te. Non posso dire con certezza di avere quel tipo di coraggio.
Hai mai pensato che ironizzare su un handicap potesse essere rischioso, addirittura pericoloso?
Certo. All’inizio lo pensavo ad ogni pagina che scrivevo. Poi, però, sono entrato nella storia, e ho dimenticato tutto. Come succede nella vita. Quando incontri qualcuno con una disabilità, all’inizio stai attento a tutto quello che dici, ma una volta che la relazione ha preso piede smetti di farci caso. Altrimenti, vorrebbe dire che non accetti la diversità, che tieni la persona a distanza. E comunque la mia intenzione non è mai stata di deridere nessuno, spero che questo si capisca chiaramente.
Jocelyn sembra stigmatizzare i cliché e i pregiudizi sulle diversità. Era questa la tua intenzione?
Certamente. Volevo dimostrare come tutte quelle cose stupide che l’ignoranza spinge a dire, spariscono quando guardi una persona con amore. Tout le Monde Debout (Tutti In Piedi) si riferisce in maniera particolare a Jocelyn, per dirgli: alzati, sollevati, elevati. Perché alla fine, è lui quello con il vero handicap.
Molti dei tuoi personaggi ripetono spesso che sugli handicap non si mente. È un problema di moralità o di tradimento?
Tradimento. Volevo costruire una situazione che fosse difficile da perdonare, ma che fosse perdonabile nonostante tutto. Lui la tradisce, ma viene assolto, perché per lei non è niente più che una bugia. Beh, dico solo che, alla fine, quella bugia che ha portato al tradimento si rivelerà più importante per lui che per lei.
Come ti è venuto in mente questo personaggio, un bugiardo, un imbroglione, un uomo che ha avuto successo ma che cerca sempre di essere qualcun altro?
C’è una scena in cui il fratello gli dice: “Non la ami, per questo ti nascondi”. Il suo problema è che non vede gli altri perché si rifiuta di guardarsi dentro. E’ pieno di difetti, e si capisce che quello che nasconde è più interessante di ciò che lascia trasparire. Questo è sicuramente l’elemento autobiografico più importante del film. Non mi piaccio molto, ma col tempo ho imparato ad apprezzarmi. Non potevo guardarmi allo specchio e spesso ho mentito a me stesso. Nel tentativo di rendermi attraente, non sono mai stato veramente me stesso. Essere qualcuno altro era molto più appagante. In fondo, quello che volevo, era che Jocelyn apparisse più bello nella sua bugia, piuttosto che nella realtà dove, come essere umano, è abbastanza sgradevole. Si, è decisamente più bello quando siede su una sedia a rotelle che nella sua Porsche rosso sgargiante.
Il film è nato subito come una commedia?
Come succede con i miei spettacoli, ho cominciato a scrivere immaginando il climax drammatico – in altre parole l’incidente evitato nel finale – e poi sono andato a ritroso, per costruire la commedia. Ma c’è anche molta tenerezza, molto amore, in questa storia, come in qualunque commedia romantica.
In effetti c’è una scena molto bella e romantica, che si svolge in una piscina. È stata scritta esattamente come la vediamo nel film?
Si, era stata scritta proprio così. E devo fare i miei complimenti a tutti i nostri tecnici. Cercavamo una casa con una piscina che avesse un fondo mobile telecomandato, tu dirai, perché? Perché cercavo di ipotizzare come potesse andare la loro prima volta e, come puoi immaginare, non volevo che succedesse in un letto. Nella piscina, dopo cena, quando il fondo si inclina, loro iniziano a galleggiare, le sedie affondano, ed è quello il momento in cui li vediamo finalmente liberi da ogni costrizione.
Qual’è il messaggio che vuoi comunicare attraverso questa commedia romantica, tenera e un po’ estrema?
Che chi è condannato a rimanere seduto ci appare diverso da noi ma in realtà non lo è. È un argomento al quale tengo molto, ma non voglio fare proclami, non voglio dare lezioni. Voglio solo dire che dobbiamo interessarci alle persone per come sono dentro. Tutti possiamo sollevarci, se lo desideriamo…