Un Piccione Seduto su un Ramo riflette sull’Esistenza, il film di Roy Andersson vincitore dell’ultimo Leone d’Oro a Venezia, arriva oggi al cinema. I due protagonisti del film, come una coppia di Don Chisciotte e Sancho Panza dei nostri tempi, ci accompagnano in un caleidoscopico viaggio attraverso il destino umano. È un percorso che svela la bellezza di singoli momenti, la meschinità di altri, l’ironia e la tragedia nascosti dentro di noi, la grandezza della vita, ma anche l’assoluta fragilità dell’umanità.
Sam e Jonathan, i due venditori ambulanti di articoli per feste e travestimenti, hanno formato un’amicizia nata dagli opposti, vivendo entrambi in un albergo di ultima categoria, che assomiglia a un istituto di accoglienza sociale. Siccome gli affari vanno male, finiscono per litigare costantemente. Mentre Sam è il più forte dei due, spesso irrispettoso nei confronti del compagno, Jonathan è molto fragile e più sensibile ai travagli della vita. Sam e Jonathan sono al centro della storia, testimoni delle esperienze degli altri personaggi.
Riportiamo qui sotto l’intervista sul film rilasciata dal regista Roy Andersson.
Questo film è considerato l’ultimo di una trilogia insieme ai precedenti Songs from the Second Floor – Canzoni, (2000) e You, the Living (2007). Da cosa sono legati questi film e in cosa si differenziano?
Sono convinto che ogni film possa, e debba, essere visto sempre individualmente. All’interno di un solo film, ogni scena può essere vista separatamente. In generale la trilogia chiede agli spettatori di esaminare se stessi; chiedendo loro “Cosa stiamo facendo? Dove siamo diretti?”, intende generare riflessione e contemplazione in merito alla nostra esistenza con una dose abbondante di tragicommedia, lebenslust, ossia passione per la vita, e un rispetto fondamentale per l’esistenza umana.
La trilogia mostra un’umanità potenzialmente diretta verso l’apocalisse, ma dice anche che il risultato è nelle nostre mani. Canzoni dal secondo piano è intriso di Millenarismo, dalla scena del venditore che butta via i crocifissi, simboleggiando l’abbandono della compassione e dell’empatia, alla scena delle case che si muovono, che evoca la paura di crisi finanziarie cicliche, esse stesse apocalissi minori. I temi della colpa collettiva e della vulnerabilità umana sono centrali in questo film. You, The Living, ha rappresentato un avvicinamento coraggioso ai sogni, una transizione che ha aperto un’intera serie di nuove possibilità per me. Prima, i miei personaggi commentavano i propri sogni. Oggi in Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, le scene semplicemente assomigliano a sogni, senza alcuna ulteriore spiegazione. Questo film è anche più ironico rispetto agli altri due, e il tono preponderante è quello della lebenslust, anche se i personaggi sono tristi e soffrono molto.
La tua regia si ispira ai pittori, da quelli rinascimentali alla Neue Sachlichkeit, conosciuta anche come Nuova Oggettività, fino a Edward Hopper. Quali pittori sono stati più importanti per Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza?
Direi Otto Dix e Georg Scholz, i due artisti tedeschi le cui innovazioni artistiche sono state ispirate dalle loro esperienze nella Prima Guerra Mondiale. Le loro visioni del mondo, incrinate dalla guerra, colpiscono in un modo che sento molto vicino, senza che io abbia mai preso parte a una guerra. Quando ero giovane, il realismo era l’unica cosa che mi interessava. Tutto il resto era semplicemente strano (o meglio, borghese), ma col tempo sono stato sempre più affascinato dall’arte astratta, a partire dal simbolismo, dall’espressionismo, e dalla Neue Sachlichkeit. È molto più interessante di una pura rappresentazione naturalistica. Oggi trovo quasi noiose le rappresentazioni naturalistiche, mentre l’interpretazione personale dell’espressione astratta è straordinaria, e Van Gogh ne è il maestro. È in grado di dipingere tre corvi che volano su un campo di grano e di convincere lo spettatore di non aver mai visto una cosa simile. È una specie di “super-realismo”, un obiettivo che ambisco a raggiungere con Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, in cui l’astrazione è condensata, purificata e semplificata. Le scene ne dovrebbero emergere ripulite, come ricordi e sogni. Sì, non si tratta di un compito facile: è difficile essere facile, ma ci proverò.
Trovi triste il fatto che i registi contemporanei non traggano più ispirazione dalla pittura?
Lo trovo molto deprimente. È per questo, forse, che il cinema di oggi è così fiacco e poco interessante. Le immagini sono così povere. E questo è, a sua volta, dovuto all’economia: non c’è né il tempo né il denaro per essere più scrupolosi. Questo considerato, mi sembra molto triste che siano così pochi i registi di oggi pronti a curare gli elementi visuali della regia, anche se questo richiede tempo e denaro. Mi ci sono voluti quattro anni di lavoro a tempo pieno per completare questo film.
Quando è uscito Canzoni dal secondo piano, nel 2000, descrivevi il tuo stile come una specie di “trivialismo”. Questo vale ancora per questo tuo film?
Sì, si tratta della trivialità trasformata in un’esperienza più attraente. E questo si applica anche alla pittura in generale, tutta la storia dell’arte è piena di trivialità perché esse fanno parte delle nostre vite, delle nostre premesse nella vita. Adoro questa cosa, e un domani vorrei diventare anche più triviale di quanto non lo sia stato in questo film. Anche di più che nelle scene con il re svedese Carlo XII che torna al campo di battaglia di Poltava, dove appare inaspettatamente in situazioni molto triviali, prima quando gli viene sete e poi quando ha bisogno di andare in bagno.
La presunta omosessualità di Carlo XII è messa in risalto per fare apparire questo conquistatore così mascolino ed eccentrico più umano?
In Svezia lui è generalmente considerato un vero macho e di conseguenza un forte simbolo per molte organizzazioni di destra. Ma oggi nutro un forte rispetto per la bellezza della scena, specialmente quando il re all’improvviso si sente così legato al giovane barista. Ne sono molto soddisfatto. In fondo, in qualunque posizione si sia nella società, le persone sono sensibili e vulnerabili. Illustrare questo è fondamentalmente ciò che voglio ottenere con il mio lavoro.
Pensi che nel mondo ci sia una sempre maggiore mancanza di compassione ed empatia?
Abbiamo tutti provato compassione almeno una volta. Mi dispiace molto, a tutti noi dispiace, il fatto che questo elemento sia spesso represso nel nome dell’affarismo. Mi riferisco a Emmanuel Levinas, che parla della dignità dell’essere umano e del rispetto per un’esistenza diversa, per un presente diverso, che è gratificante. In una delle scene del mio film, un anziano si pente del comportamento crudele e avaro che ha mantenuto in tutta la sua vita: “È per questo che sono stato così infelice”, dichiara a un cameriere. Ma le parole non bastano a creare una comprensione completa e una comunicazione totale, il che in qualche modo spiega la mancanza di parole nella trilogia. Penso che il ritratto visuale dell’essere umano, sia nella pittura che nel cinema, ci dica più delle parole. Non posso spiegarlo in altro modo. È anche per questo che mi piace, per esempio, Aspettando Godot di Beckett: è così triviale, laconico, con queste persone che non si capiscono, eppure così autentico. Le mie scene vogliono mostrare le incomprensioni e gli errori commessi da persone che si incontrano ma non entrano davvero in contatto perché pensano di avere poco tempo per ottenere ciò che loro ritengono importante.
Sembri nutrire un affetto particolare per i venditori: i protagonisti dei tuoi film vendono crocifissi, frigoriferi, e in questo tuo ultimo lavoro, degli oggetti per far ridere la gente. È una specie di autoritratto?
In un certo modo, questo deriva dalla mia infanzia, da membri della famiglia che vendevano cose. Ma essere un venditore è così universale, è quasi un sinonimo della vita. La vendita e la pubblicità, si potrebbe dire, sono i fondamenti di una società civilizzata. Convincerò questo fondo o quell’emittente televisiva del fatto che questo sia interessante e importante. Io stesso sono un venditore, e tutti noi lo siamo. Dobbiamo promuovere noi stessi e comunicare tramite le nostre cose e le nostre idee.
Come ti è venuta l’idea di far vivere i due venditori in un albergo di pessima categoria?
L’hotel è una conseguenza diretta del mio trascorso a Göteborg. Il posto in cui sono cresciuto oggi è una bettola, e purtroppo mio fratello, che fa uso di droghe da molto tempo, è finito lì. Quindi conosco bene la vita in quell’ambiente. In senso più ampio, questi compagni sono modellati direttamente sulla letteratura: Don Chisciotte e Sancho Panza, Uomini e Topi di John Steinbeck e come non citare, dalla storia del cinema Stanlio e Ollio, anch’essi una fonte di ispirazione per Beckett. Gli uomini nel film sono una versione di Stanlio e Ollio. Uno di loro è un po’ tronfio, mentre l’altro non è molto sveglio; è un po’ più triste e piange facilmente. Sono stato molto ispirato da queste coppie maschili della storia culturale.
E nella loro relazione impari, i due venditori rappresentano anche l’universo più in generale, l’oppressore contro l’oppresso.
Sì, che sta diventando sempre più evidente. Oggi ho parlato con il mio direttore della fotografia, István Borbás, di questo problema diffuso, di una società con sempre meno solidarietà. Oggigiorno siamo spinti a pensare soltanto a noi stessi, ad aumentare il nostro guadagno approfittandoci degli altri. Non oso pensare alle conseguenze terribili di questo comportamento. È un disastro, un’alienazione che farà perdere qualunque fiducia ai giovani. Odio l’umiliazione, vedere altre persone essere umiliate ed essere umiliato io stesso. In un certo senso, tutti i miei film trattano di umiliazione. Sono nato in una famiglia operaia e ho visto alcuni parenti umiliarsi davanti ai propri superiori, mostrando un rispetto esagerato per l’autorità, che li rendeva incapaci di parlare, per poi lasciarli con un senso di colpa. Ho provato questa sensazione tutta la vita ed ho deciso di lottare contro di essa.
E questa lotta ha avuto successo?
Sì, nel senso che non sono come i miei nonni, non ho per nulla paura delle classi dirigenti. Ma vivrò con questa umiliazione tutta la mia vita, e con un odio nei confronti dell’autorità. Questa è anche la ragione principale del mio uso ricorrente di caricature di monarchi. È un modo per bestemmiare contro la storia della classe dirigente. Per un artista è importante, necessario persino, smuovere i preconcetti, suscitare, aumentare il senso di colpa nel mondo. Siamo ancora tenuti a provare vergogna.
La trilogia ora è terminata. Questo è anche l’ultimo film che possiamo aspettarci da Roy Andersson?
No, in realtà sto già lavorando su un nuovo film. Sarà ancora più feroce e spregiudicato, con ancora più fascino e richiamo. Non abbandonerò mai il probabile e il possibile. La mia regia deve essere connessa a una certa praticità, una specie di realismo stilizzato.
L’Essere Umano e la Stanza
“Nella nostra vita quotidiana, non riflettiamo spesso sulle stanze e sullo spazio intorno a noi, sia che osserviamo sia che siamo osservati, occupati come siamo dalle nostre attività e dai nostri pensieri. Ma quando si tratta di descrivere un essere umano e la sua esistenza, ci torna in mente l’importanza dello spazio.
Lo spazio descrive il suo destino e la sua sorte, la sua situazione nella vita. Uso la parola “stanza” nel senso svedese, più ampio, del termine, che significa “spazio personale”, il che vuol dire che una stanza può esistere anche all’esterno, non solo all’interno. Non possiamo sfuggire alla nostra stanza. È possibile scegliere, in una certa misura, in quale stanza esistere, o conformarla alle nostre preferenze. Questo spazio ci segue e rivela le nostre ambizioni.
Nella maggioranza dei casi, però, ci ritroviamo in una stanza sulla quale non abbiamo esercitato alcun tipo di controllo. Non capita spesso di finire in uno spazio solo grazie alla nostra volontà. Il nostro ambiente, la nostra “stanza”, rivela il nostro posto nella società e nella storia. Rivela le condizioni della nostra vita, della nostra esistenza. È il risultato di un processo storico, laddove l’influenza del nostro libero arbitrio è meno importante di quanto non ci piaccia pensare.
Nella fotografia, nella pittura e nelle installazioni artistiche, la comprensione dello spazio è sempre stata evidente e in queste arti si è sviluppato un incontro tra discipline diverse. Al contrario, la cinematografia da lungo tempo ha abbandonato lo spazio, a vantaggio di un narcisismo astorico e pseudo-sociale. Non è un caso che la cinematografia sia ancora associata alla nozione di “fabbrica di sogni”. Lo spazio definisce l’essere umano e rivela i valori e le condizioni alla base dei sogni che facciamo. Lo spazio dice la verità. Non lo vediamo né sentiamo sempre e questo capita ancora meno spesso, per tradizione, nei film”.
Roy Andersson