Giovedì 15 novembre arriverà nelle nostre sale In Guerra, il nuovo film di Stéphane Brizé che, dopo il successo de La Legge Del Mercato, torna a dirigere l’attore Vincent Lindon in un potente spaccato sul mondo del lavoro.
Nonostante i sacrifici finanziari dei dipendenti e l’aumento dei profitti dell’ultimo anno, i dirigenti della Perrin Industries decidono improvvisamente di chiudere una fabbrica. I 1100 dipendenti, rappresentati dal loro portavoce Laurent Amédéo (Vincent Lindon), decidono di opporsi a questa drastica decisione, pronti a qualsiasi cosa pur di non perdere il posto di lavoro.
Vi riportiamo di seguito un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Stéphane Brizé.
Perché questo film?
Per capire cosa c’è dietro le immagini dei media che vengono regolarmente proposte a testimonianza della violenza che può scatenarsi durante la contrattazione di un accordo per un licenziamento collettivo. Anzi, dovrei dire “prima” invece di “dietro”. Cosa accade prima dell’improvvisa esplosione di violenza? Quale percorso ha portato a quel punto? Una rabbia alimentata da un senso di umiliazione e disperazione, accumulato in lunghe settimane di lotta, che rivela, come scopriremo, una sproporzione colossale tra le forze in campo.
Quali sono gli assi attorno ai quali si struttura il film?
Il co-sceneggiatore del film Olivier Gorce e io siamo partiti da due premesse: immaginare il film come un’epopea, costruita però senza mascherare la realtà con la finzione. Dunque, il racconto si sviluppa attorno alla descrizione di un meccanismo economico che ignora i fattori umani e in parallelo all’osservazione della rabbia crescente dei lavoratori sottoposti alla pressione della negoziazione di un accordo per un licenziamento collettivo. Una rabbia incarnata in particolare da un delegato sindacale che mette in campo, senza alcuna retorica politica, proprio la necessità di farsi portavoce del dolore e dell’indignazione che sono tanto suoi quanto degli altri lavoratori. La sua ragione per lottare: rifiutarsi di essere privato del lavoro solo per permettere alla società di aumentare ulteriormente i propri profitti, quando questa stessa azienda si era impegnata a tutelare i posti di lavoro dei dipendenti in cambio della loro disponibilità a ridurre il proprio salario.
Definirebbe la situazione raccontata nel film eccezionale?
Assolutamente no. Se lo fosse, il mio film sarebbe una manipolazione della realtà e non lo è. Ed è una situazione talmente frequente che ne sentiamo parlare ogni giorno nei notiziari, ma forse senza comprenderne veramente la posta in gioco e i meccanismi in atto. L’esempio di Perrin Industries mostrato nel film, è lo stesso di Goodyear, Continental, Allia, Ecopla, Whirlpool, Seb, Seita e così via. In tutti questi casi, esperti analisti hanno evidenziato l’assenza di difficoltà economiche delle aziende o di una minaccia sul piano concorrenziale.
Ha realizzato un film molto politico.
Politico nel senso etimologico del termine, ovvero che osserva la vita della città. Ma io non sono il portavoce di alcun partito o sindacato, mi limito semplicemente ad analizzare un sistema oggettivamente coerente dal punto di vista degli azionisti, ma altrettanto oggettivamente incoerente dal punto di vista umano. E il film contrappone questi due punti di vista. La dimensione umana contro gli interessi economici. Come possono combaciare queste due differenti interpretazioni del mondo? Possono anche solo coesistere ai giorni nostri? Mi sono interessato a questi temi perché non sono convinto che la maggior parte delle persone colga fino in fondo cosa si nasconde dietro la chiusura delle fabbriche di cui sente parlare tutti i giorni in tv e sui giornali. Non mi riferisco alle imprese che chiudono perché sono in perdita, ma alle aziende che chiudono impianti di produzione nonostante siano in attivo.